Gli impegni presi finora dai diversi Paesi per uscire dal carbone sono inadeguati ai fini climatici, perché sono incompatibili con l’obiettivo di contenere a +1,5-2 °C l’aumento delle temperature entro fine secolo, rispetto ai livelli preindustriali.
A queste conclusioni è giunto un gruppo di ricercatori di varie università europee, nello studio intitolato “Phasing out coal for 2 °C target requires worldwide replication of most ambitious national plans despite security and fairness concerns”, pubblicato su Environmental Research Letters.
Una conclusione preoccupante, visto che per come stanno andando le cose, sarà molto, molto difficile replicare su scala globale il viaggio energetico fatto dalla Gran Bretagna, che in appena un decennio ha quasi azzerato il carbone.
Per vedere cosa ha fatto il Regno Unito è utile il grafico sotto, tratto dalle recenti analisi di Ember, think tank indipendente che si occupa di analisi in campo energetico.
In pratica il carbone, che nel 2010 produceva il 28% dell’energia elettrica britannica, nel 2022 è crollato al 2% del mix di generazione.
Poiché anche la quota del gas è scesa, dal 46 al 39%, mentre il nucleare è rimasto stabile intorno al 15%, la fetta del carbone è stata rimpiazzata perlopiù dalle fonti rinnovabili, in particolare dall’eolico che è balzato dal 3 al 25% del mix elettrico.
Il fotovoltaico, che dieci anni fa valeva meno dell’uno per cento della produzione totale di energia, è arrivato intorno al 4% nel 2022.
Ha contribuito a questo quadro anche la riduzione complessiva della domanda di elettricità, scesa da 382 a 320 TWh in poco più di un decennio.
Grazie all’azzeramento del carbone e al boom delle rinnovabili, l’intensità di CO2 della produzione elettrica si è più che dimezzata: 461 grammi di CO2/MWh nel 2010, 182 gCO2/MWh lo scorso anno (-61%).
In totale, le emissioni sono scese da 160 milioni di tonnellate di CO2 nel 2010 a 58 Mt nel 2022.
Tuttavia, ripetere questo processo di dismissione del carbone altrove è complicato.
Il problema, segnalano gli autori della ricerca pubblicata su Environmental Research Letters, in una nota divulgativa diffusa dalla svedese Lund University, è che molto dipenderà da quello che sta succedendo nelle economie emergenti in Asia. Molte delle quali sembrano ben poco propense ad abbandonare in tempi rapidi le fonti fossili.
Lo scenario compatibile con i target climatici è poco realistico, si legge nel documento: Cina e India dovrebbero iniziare a eliminare gradualmente il carbone esistente (senza costruire nuovi impianti) nei prossimi cinque anni.
Ma nella sola Cina ci sono decine di GW di centrali in costruzione o pianificate.
Le due superpotenze asiatiche poi dovrebbero uscire dal carbone a un ritmo più veloce di quanto storicamente osservato in qualsiasi Paese.
Lo studio ha analizzato 72 impegni nazionali per l’eliminazione graduale dell’energia da carbone, impegni che coprono il 17% della capacità globale installata in questa fonte fossile, ma il loro impatto sulle emissioni (fino a 4,8 miliardi di tonnellate di CO2 evitate entro il 2050) rimane piccolo, rispetto a quanto necessario per raggiungere gli obiettivi climatici definiti a Parigi.
Inoltre, gli sforzi richiesti riguardano in gran parte le economie asiatiche: Cina e India innanzitutto, ma anche altri Paesi come Indonesia e Malesia, oltre a Turchia, Russia e altre Nazioni in via di sviluppo in Asia, Africa, Medio oriente.
Questo riporta a un altro nodo finora irrisolto della transizione energetica: la necessità di aumentare i finanziamenti green alle economie emergenti, da parte dei Paesi più ricchi, in modo da accelerare l’abbandono delle energie più “sporche” e favorire gli investimenti nelle rinnovabili.
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