La crisi energetica attuale che sta colpendo i Paesi europei deve essere intesa come “sistemica“, una crisi causata dal credere “nella falsa promessa del gas naturale importato a basso costo“.
Lo scrive Oleksiy Tatarenko, analista del Rocky Mountain Institute (RMI), organizzazione internazionale basata negli Usa, specializzata sui temi della transizione energetica verso le fonti pulite.
E questo problema, precisa Tatarenko, non sarà risolto finché i politici europei non si porranno la domanda fondamentale: nella transizione verso un sistema economico a basso impatto ambientale, per quanto tempo è nel loro interesse fare affidamento sul “ponte” instabile che è il gas?
Intanto con le azioni militari della Russia contro Kiev il prezzo del petrolio è andato sopra 100 $ al barile, le Borse hanno registrato forti perdite (soprattutto quella russa) e il Consiglio europeo ha annunciato un pacchetto di pesanti sanzioni contro Mosca.
I leader dei 27 Stati membri hanno concordato sanzioni finanziarie sul 70% del settore bancario russo, escludendo però le transazioni del settore energetico; per il momento, le importazioni oil & gas dalla Russia non saranno toccate.
E la Russia non sarà esclusa dallo Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), il protocollo che consente di eseguire le operazioni finanziarie a livello internazionale.
In questo scenario, spiega Tatarenko in un breve articolo sul blog RMI dedicato alla crisi europea, puntare sulle fonti rinnovabili è la sola soluzione praticabile sul medio-lungo termine per aumentare la sicurezza energetica Ue e allo stesso tempo ridurre le emissioni di CO2 e raggiungere così gli obiettivi climatici.
La promessa di avere gas abbondante, conveniente e accessibile si sta ritorcendo contro gli stessi governi Ue che vi hanno creduto negli anni passati.
La Germania, secondo Tatarenko, evidenzia il disallineamento tra obiettivi climatici e dipendenza dal gas fossile; il 60% del gas importato da Berlino proviene dalla Russia e questo combustibile soddisfa il 27% circa dei consumi energetici complessivi della Germania.
Ma la strada europea per ridurre la dipendenza dal gas non può essere quella del nucleare, sottolinea il Rocky Mountain Institute, perché in molti mercati, Italia compresa, le energie rinnovabili già oggi sono in grado di produrre elettricità al minor costo, anche rispetto al gas, e la convenienza di queste fonti non farà che aumentare nei prossimi anni.
Peraltro, i tempi di realizzazione di nuovi reattori nucleari sono molto lunghi, almeno dieci anni nella migliore delle ipotesi.
La seconda carta che possono giocare i Paesi Ue, del tutto complementare a quella delle rinnovabili, è la produzione di idrogeno verde, in modo da uscire dai combustibili fossili nei settori più difficili da elettrificare direttamente, come industrie pesanti e trasporti sulle lunghe distanze.
Da quando Bruxelles ha lanciato la sua “Hydrogen strategy” nel 2020, sottolinea Tatarenko, le aziende private hanno già annunciato progetti per complessivi 50 GW di H2 verde in Europa.
La svedese H2 Green Steel e la spagnola Fertiberia, ad esempio, sono già impegnate rispettivamente in progetti per produrre acciaio e ammoniaca con idrogeno ricavato da elettricità 100% rinnovabile. Allo stesso tempo, i Paesi Ue dovranno realizzare infrastrutture volte a importare quantità crescenti di idrogeno verde da altre aree geografiche, caratterizzate da ampia disponibilità di energia rinnovabile a basso costo.
Ma queste importazioni saranno più diversificate e, quindi, molto meno soggette a eventuali tensioni geopolitiche e rotture nelle catene di approvvigionamento.
E combinando la produzione domestica di H2 verde con le importazioni di idrogeno e ammoniaca da diversi partner commerciali, ad esempio in Africa e Asia, si potrebbe sostituire circa metà del gas fossile attualmente acquistato a livello Ue dalla Russia.