Petrolio, nucleare e rischio guerra: l’attacco israeliano all’Iran apre scenari preoccupanti

L’attacco di Israele ai siti nucleari e militari iraniani scuote i mercati energetici e riaccende il rischio di un conflitto regionale che potrebbe coinvolgere le grandi potenze e far saltare ogni prospettiva diplomatica.

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Dopo il grave attacco sferrato da Israele contro alcuni impianti nucleari e militari iraniani, siamo costretti a considerare la situazione da due prospettive distinte.

La prima, di minore rilievo in termini umanitari ma con forti implicazioni economiche, riguarda l’andamento del prezzo del petrolio. La seconda, ben più allarmante, riguarda il rischio concreto di un’escalation militare regionale, con potenziali conseguenze globali.

Il prezzo del petrolio e la nuova ondata di incertezza

I futures sul greggio WTI hanno superato temporaneamente i 77 dollari al barile, per poi assestarsi oltre i 73 dollari venerdì 13 giugno (mentre scriviamo sono a 73,8 $/b), toccando i livelli più alti da febbraio. Alla base di questo rialzo, i timori di possibili interruzioni dell’offerta seguiti all’attacco israeliano contro l’Iran. In forte rialzo anche il petrolio Brent.

Il pericolo maggiore, segnalano numerosi analisti, è legato al possibile allargamento del conflitto, che metterebbe a rischio la sicurezza dello Stretto di Hormuz: da questo passaggio strategico transita circa il 20% del commercio mondiale di petrolio. Secondo le stime di Saul Kavonic e Priyanka Sachdeva (Reuters), se Teheran dovesse reagire con azioni dirompenti, fino a 20 milioni di barili al giorno potrebbero essere temporaneamente compromessi.

A complicare il quadro, anche l’annuncio di una parziale evacuazione del personale statunitense da alcune basi nella regione. Una mossa che segue le minacce iraniane di attacchi contro installazioni americane nel caso in cui fallissero i colloqui sul nucleare, negoziati che, come vedremo più sotto, sono oggi cancellati.

Va però segnalato che una parte del rialzo dei prezzi iniziati nei giorni scorsi è legata anche a fattori strutturali. I dati dell’EIA (Energy Information Administration degli Usa) indicano un calo superiore alle attese delle scorte statunitensi, in un contesto di domanda in crescita, segnale di un’economia in fase espansiva.

Le previsioni sull’evoluzione del prezzo del greggio, come sempre, restano altamente incerte e da prendere con le pinze. Secondo J.P. Morgan, in caso di escalation il prezzo potrebbe toccare i 120 dollari al barile. Altri analisti, come Matt Simpson (City Index), ritengono più realistico un consolidamento intorno ai 78-80 dollari.

Janiv Shah (Rystad Energy) sottolinea che, pur esistendo potenziali rialzi, la crescita potrebbe rientrare entro pochi giorni vista la bassa probabilità di uno scoppio di una guerra in piena regola e del sostegno di capacità da OPEC+ (che include Paesi come Russia, Oman, Messico, Malaysia).

In sintesi, gli scenari più estremi parlano di un possibile balzo verso i 90-120 dollari/barile, ma in assenza di un’escalation immediata e irreversibile, i mercati potrebbero rientrare su livelli più contenuti entro pochi giorni. Ma le variabili in gioco sono molte.

Un conflitto che rischia di destabilizzare l’intera regione

La questione energetica non può essere però disgiunta dal contesto militare e diplomatico. L’azione di Israele contro i siti nucleari iraniani (non la prima, come molti ricorderanno) è un salto di qualità nelle tensioni mediorientali, aprendo un nuovo fronte di rischio in un’area già attraversata da conflitti drammatici, e da quanto sta commettendo a Gaza. L’Iran ha già annunciato una ritorsione pesante.

L’attacco arriva in un momento estremamente delicato: il 12 giugno, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha deliberato che l’Iran non sta rispettando gli obblighi sulla non proliferazione, denunciando attività sospette in siti non dichiarati. Contestualmente, è stato avviato il processo per il ripristino delle sanzioni previste dal JCPOA (l’accordo sul nucleare del 2015).

L’Iran ha reagito condannando la risoluzione come politicizzata e ha annunciato il rafforzamento del proprio programma di arricchimento, rendendo inevitabile il blocco dei colloqui diplomatici ripresi ad aprile a Muscat, proseguiti a Roma e nuovamente in Oman. I nodi irrisolti, in particolare il controllo internazionale delle centrifughe e la possibilità di arricchimento su suolo nazionale, restano al centro dello stallo.

Israele, potenza nucleare di fatto, anche se mai ufficialmente dichiarata, ha colpito unilateralmente e in modo illegittimo secondo il diritto internazionale, gli impianti iraniani, con un’azione che secondo fonti internazionali era pianificata da mesi. Il tempismo, subito dopo la risoluzione dell’AIEA, appare tutt’altro che casuale e rischia di vanificare ogni residua possibilità di ripresa del dialogo, contribuendo a destabilizzare ulteriormente l’intera regione.

L’ombra lunga del nucleare e la miopia delle potenze occidentali

Non è escluso che dietro l’aggressività crescente del governo Netanyahu, sempre più isolato ma sostenuto da un’alleanza interna e internazionale che gli consente un’ampia libertà d’azione, vi sia il timore che Teheran sia vicina a ottenere la capacità tecnica per costruire armi nucleari. Un sospetto che, seppur non confermato, alimenta da tempo il dibattito strategico e giustifica, agli occhi di Israele, le operazioni preventive.

Il genocidio in corso a Gaza, condotto con una brutalità senza precedenti, sembra aver testato, e superato, i limiti della tolleranza internazionale. Il silenzio-assenso o il sostegno di larga parte dei governi occidentali, degli Usa in testa mentre l’Ue è sempre più irrilevante, ha probabilmente aperto la strada a un nuovo intervento militare, questa volta contro l’Iran.

A ribadire l’ambiguità strutturale della tecnologia atomica, valga la riflessione di Giuseppe Onufrio (Greenpeace Italia): Non esiste il nucleare civile: chi acquisisce la tecnologia, prima o poi arriva alla bomba, se vuole. Una frase che torna sempre e stavolta ancora con più forza alla luce di quanto sta accadendo.

Fermare l’escalation prima del punto di non ritorno

Oggi più che mai, è urgente che la comunità internazionale intervenga per fermare Israele, partendo dalla tragedia in atto a Gaza. Soprattutto gli Stati Uniti, ma anche l’Unione Europea (e il suo immorale piano di riarmo) hanno il dovere di recuperare la poca credibilità rimasta e assumere un ruolo attivo per rilanciare la via diplomatica, prima che si arrivi a un punto di non ritorno.

Ma anche l’opinione pubblica e la stampa non può più permettersi di non denunciare e ribellarsi a questo pericoloso crescendo.

L’alternativa è un Medio Oriente sull’orlo del baratro, con pesantissime ricadute per la sicurezza globale, per l’economia, per il clima e per le stesse istituzioni del diritto internazionale.

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