Gli ostacoli mentali che fanno andare le rinnovabili con il freno a mano

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Perché dobbiamo superare vecchi pregiudizi energetici per sprigionare le enormi potenzialità delle fonti rinnovabili.

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“L’idrogeno è fantastico per la transizione ecologica, ma non è ancora pronto; ma l’idrogeno blu sarà utile per il passaggio a quello verde da fonti rinnovabili. Dobbiamo fare il 72% di energia elettrica da rinnovabili entro il 2030, il resto con il gas. La fusione nucleare è un treno che non possiamo perdere. Le auto andranno a fuel cell. Le batterie? Forse le avremo superate”.

Da quando si è insediato, il ministro della Transizione Ecologica, Cingolani, ha fatto una serie di dichiarazioni così contraddittorie da far venire la labirintite.

Sarebbe più corretto guardare ai fatti piuttosto che alle parole, ma anche qui non si va proprio nella giusta direzione.

Dobbiamo ancora una volta mettere in evidenza che le strategie per una decarbonizzazione del sistema energetico, sicuramente complesse, richiedono però soluzioni che non sono nelle corde di chi è preposto ad attuarle. E non solo perché risponde agli interessi delle lobby energetiche, ma anche per un’impostazione tecnologica e culturale troppo legata a concezioni superate.

Altro problema da considerare è che figure di grande visibilità mediatica, come un ministro o un politico di primo piano, oltre a prendere (o a non prendere) decisioni, incidono sul comune sentire, diffondendo punti di vista e opinioni che diventano “dominanti”, condizionando i titoli di una stampa che in Italia è poco incline ad andare oltre la mera dichiarazione.

Facciamo l’esempio delle fonti rinnovabili. Dopo anni di crescita, di innovazioni e di crollo dei costi, sono ancora viste, secondo vecchi pregiudizi, con uno scarso potenziale.

La disinformazione è dura a morire se reiterata secondo schemi mentali vecchi, spesso confermati, non solo da quei decisori politici di cui sopra, ma anche da diversi tecnici energetici (o tecnocrati) ancorati ad un modello energetico centralizzato e fossile, che dispensano verità da addetti ai lavori, sebbene siano già stati sorpassati dai fatti.

Insomma, gli ostacoli maggiori restano di natura mentale, e il nostro attuale ministro non sembra distanziarsi troppo dai suoi colleghi del passato.

Dopo oltre un decennio, ci viene ancora in aiuto il “sociologo delle energie rinnovabili” per eccellenza, Hermann Scheer. Un personaggio, e un politico, che ha avuto il merito di non limitarsi alle dichiarazioni, ma che con le sue politiche ha ottenuto risultati fondamentali per le rinnovabili di cui oggi tutti beneficiamo. Scheer è infatti il padre dell’incentivo della feed in tariff, introdotta in Germania per la prima volta nel 2000.

Ma cosa diceva Scheer su quegli assiomi, o come li chiamava lui, su quelle dubbie premesse tecnico-scientifiche che ostacolavano ieri, così come oggi, una più rapida transizione verso le rinnovabili?

Una lista sintetica ci dovrebbe aiutare a rimettere in ordine alcune coordinate per capire i motivi delle timide scelte che si fanno in questo settore.

Quante volte abbiamo sentito dirci che il potenziale delle rinnovabili è insufficiente per poter rinunciare alle energie fossili e al nucleare? Tantissime, anche se sappiamo che non è così. Ma accettare questa posizione significa considerare come inevitabile l’utilizzo di fonti energetiche pericolose per l’umanità.

Sviluppare le rinnovabili per coprire tutta la domanda richiede tanto tempo, ci dicono. E dunque, visto che ciò sarà possibile in un futuro parecchio lontano, è bene nel frattempo investire in fonti convenzionali e relative infrastrutture. Un contributo, ci raccontano, che servirà da ponte per giungere, chissà quando, ad un mondo basato sulle rinnovabili.

Altra affermazione, anch’essa ricorrente e tossica: non possiamo soddisfare la nostra domanda senza grandi centrali energetiche. Al contrario: la generazione fatta di piccoli e medi impianti a fonti rinnovabili distribuiti sul territorio diversificherebbe le fonti e avrebbe tempi di introduzione molto più rapidi, favorendo anche la democrazia energetica.

E ancora: la prima fonte rinnovabile è l’efficienza energetica. Approccio che spesso porta ad una conseguenza: dare priorità agli investimenti per incrementare l’efficienza degli impianti a fonti convenzionali, anche perché considerati meno costosi. La premessa sottesa è che se ti impegni in questo ambito non potrai investire più di tanto in rinnovabili. Invece queste due strategie devono essere percorse parallelamente, e senza esitazione.

Le rinnovabili – si afferma – devono usare le strutture di approvvigionamento che già esistono, reti elettriche o gasdotti che siano. Una priorità, questa, che non può diventare un vincolo tecnico e sembra ritenere le fonti verdi accettabili solo in base a questi criteri; un modo per continuare ad investire in infrastrutture per la generazione centralizzata (vedi il caso dell’idrogeno).

L’aspetto economico è poi sempre al centro delle decisioni di una politica energetica… fossile, e riguarda due aspetti: vanno salvaguardati i capitali investiti nell’industria energetica (alla faccia del liberismo di facciata) e vanno sempre fatti i conti con gli “elevati” costi delle rinnovabili. Ma poi chi confronta i reali benefici economici, ambientali, sociali e innovativi del loro sviluppo rispetto a quello delle fossili?

Direttamente connesso a quest’ultimo aspetto è la reiterata sottolineatura di quanto lo sviluppo delle fonti rinnovabili dipenda dalle sovvenzioni. Eppure, gli stessi che lo affermano si dimenticano di elencarci tutti i sussidi alle fonti fossili e nucleari, ben più ingenti e antichi.

Non contenti di tutto questo lavaggio e autolavaggio del cervello, non possiamo non rammentare altre considerazioni che fanno tutti coloro che sono timorosi del cambiamento o vogliono rallentarlo.

Tra queste, c’è la eccessiva preoccupazione dell’impatto ambientale e visivo delle tecnologie rinnovabili, trascurando e confondendo però le differenze sostanziali e di lungo termine con quello connesso alle centrali a fonti fossili e al nucleare.

C’è poi chi sostiene che chi opera nelle rinnovabili debba sempre cercare un accordo con l’industria energetica; un altro modo per consolidare la sudditanza nei confronti del monopolio del settore energetico convenzionale. Come se i primi fabbricanti di automobili avessero chiesto, a suo tempo, il permesso a carrozzieri e stallieri.

Insomma, siamo seri, vanno pure bene le rinnovabili, ma procediamo per piccolissimi passi, evitando di spaventare troppo l’economia, la politica e l’opinione pubblica: è l’ultimo dei consigli non richiesti dai fan dell’energia convenzionale e da chi ritiene ovvi i suoi assiomi. Un’altra tattica ideale per mantenere lo status quo.

Come si può capire si tratta di premesse che possono essere smantellate una per una.

Un modello energetico diverso nascerà, anzi sta già nascendo, su milioni di iniziative autonome delle persone, di organizzazioni, comunità, imprese e città. Oggi non servono più sostanziosi incentivi, ma una mentalità e una politica che lasci ampio spazio a queste opportunità e a questi attori, senza proteggere l’ormai insostenibile passato, ma solo salvaguardando quei lavoratori che potranno subire le conseguenze del cambiamento.

Ecco, forse, un altro modo di concepire e realizzare una “transizione energetica” giusta. Ma non ancora nel DNA dei nostri governanti.

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