Nonostante sia una tecnologia per molti versi obsoleta, poco competitiva, e bandita dal nostro paese da ben due referendum, anche in questa campagna elettorale si parla di nucleare, “soluzione” proposta da diverse forze in campo.
Avendo già approfondito in molti articoli le criticità di questo modo di produrre energia, proponiamo questo intervento sotto forma di Q&A di ECCO, think tank italiano specializzato in analisi sulla questione clima-energia:
Il nucleare emette CO2 per la produzione di elettricità?
No. Infatti, così come per le fonti rinnovabili, in Europa e in altri paesi per il nucleare non si pagano i permessi per emettere CO2.
È vero che nel ciclo di vita il nucleare emette meno CO2 delle energie rinnovabili?
No. Secondo i dati dell’Agenzia tedesca per l’ambiente, l’energia nucleare rilascia, sull’intero ciclo di vita, 3,5 volte più CO2 per chilowattora rispetto al solare fotovoltaico e 13 volte in più rispetto all’energia eolica. Secondo i dati dell’ultimo rapporto della comunità scientifica internazionale delle Nazioni Unite (IPCC), il potenziale di riduzione di emissioni nette entro il 2030 di solare ed eolico è 4 volte maggiore rispetto al nucleare.
Il nucleare è una fonte rinnovabile?
No. L’attuale tecnologia e quelle future (che si possono immaginare disponibili commercialmente nell’arco di una ventina d’anni) utilizzano un elemento non rinnovabile, l’uranio. Inoltre, la gestione in completa sicurezza di lungo termine dei rifiuti radioattivi richiederebbe trattamenti e confinamenti secolari in impianti che al momento ancora non esistono. Non solo non è rinnovabile l’input, ma viene scaricata sulle prossime generazioni una delle maggiori criticità della tecnologia.
Qual è il contributo del nucleare oggi e nei principali scenari di decarbonizzazione al 2050?
A livello globale, la quota di elettricità prodotta da nucleare si attesta oggi sul 10% e sul 5% rispetto ai consumi energetici primari di tutti i settori. Nello scenario Net-Zero Emission 2050, la IEA (l’Agenzia Internazionale dell’Energia) stima a livello globale una quota di nucleare (anche nuovo) presente in un mix ottimale di energia elettrica decarbonizzata in calo all’8%.
A livello europeo, il nucleare rappresenta oggi il 25% della generazione elettrica e il 14% dei consumi energetici primari. Secondo la strategia 2050 di decarbonizzazione della Commissione UE, la quota di generazione elettrica nucleare nel 2050 scende al 15%. Questa strategia non implica l’aumento di capacità in Europa, ma richiede la sostituzione di una parte della notevole quota di impianti oggi esistenti che si approssima a fine vita, soprattutto in Francia. Il nucleare dell’attuale tecnologia avrà un ruolo al 2050 solo nei paesi che già ne dispongono o che hanno impianti in costruzione, soprattutto in Cina.
Il nucleare non può essere visto come un’alternativa alla sostituzione progressiva ed integrale dei combustibili fossili con le fonti rinnovabili. A livello globale, le rinnovabili andranno a coprire il 90% della generazione elettrica nei prossimi decenni secondo lo scenario Net-Zero Emissions 2050 della IEA. In Europa la generazione di rinnovabili è attesa fino all’85% al 2050.
Cosa mostra l’esperienza recente sui tempi e i costi di realizzazione delle centrali nucleari?
L’esperienza recente di sviluppo di centrali nucleari, soprattutto quella europea, mostra tempi lunghi e costi di realizzazione proibitivi.
L’ultimo impianto entrato in servizio in Finlandia nel gennaio 2022 (Olkiluoto 3) è un’unità di 1600 MW la cui realizzazione è costata 11 miliardi di euro (circa 10 volte più di centrali a gas per pari potenza e 5 volte di più di parchi eolici terrestri per pari potenza in Italia) e ha richiesto 17 anni di lavori dall’inizio della costruzione, senza includere i tempi di progettazione e autorizzazione.
Il terzo reattore dell’impianto di Flamanville, in Normandia, non è ancora completo dopo oltre 14 anni dall’inizio dei lavori, con un budget che si è quasi quadruplicato nel corso degli anni (salito da 3,3 a 12,4 miliardi €). In passato partecipato da Enel, ora mira a iniziare le operazioni commerciali nel 2023.
Il sito in costruzione a Hinkley Point nel Regno Unito – costo iniziale stimato di 18 miliardi di sterline, già lievitato a 26 – è stato finanziato grazie all’impegno del Governo (e quindi dei suoi contribuenti) a comprare la fornitura per 35 anni a un prezzo di 92,50 sterline per MWh (a prezzi del 2012, oggi vale 110 sterline), ossia più del doppio del prezzo che esprimeva il mercato locale dell’elettricità alla firma dell’accordo nel 2016. All’epoca si stimava che il progetto avrebbe prodotto un costo per i contribuenti di 37 miliardi di sterline.
Se è vero che lo shock 2021-22 ha alzato i prezzi, il mercato si aspetta un trend futuro discendente, come dimostrano le ultime aste rinnovabili in Regno Unito in cui 93 progetti per 10,8 gigawatt sono stati assegnati a un prezzo medio di 41 sterline per MWh (in prezzi del 2012), meno della metà del prezzo che i contribuenti britannici pagheranno per 35 anni per Hinkley.
L’energia nucleare costa meno di altre fonti e consente di abbassare le bollette?
No, anche se generalmente una parte cospicua dei suoi costi viene socializzata con le tasse.
In termini di costi medi, il nucleare non è, salvo casi particolari, tra le fonti più economiche disponibili. Secondo i dati di IEA e NEA (agenzie per l’energia e per l’energia nucleare dell’OCSE) la fonte più economica è generalmente il fotovoltaico.
È del tutto fuorviante riferirsi al nucleare come una fonte economica solo in relazione ai bassi i costi variabili della sua produzione, riferiti perlopiù all’approvvigionamento di uranio come materiale fossile. Se si applicasse lo stesso ragionamento alle rinnovabili, queste dovrebbero considerarsi gratuite.
Il fatto che i costi del nucleare siano perlopiù fissi, la grande portata degli investimenti necessari e delle risorse necessarie per la gestione dei rischi (statisticamente ridotti ma di dimensione unitaria troppo grande per essere assicurabili dai privati), fa sì che il nucleare sia tipicamente pagato attraverso le tasse, anche nei paesi con economie di mercato come la Francia, dove da anni una legge prevede che parte della produzione debba essere ceduta da EDF (Électricité de France) sul mercato a prezzo politico. Malgrado questo, è bene precisare che la Francia oggi – inizio agosto 2022 – esprime i prezzi all’ingrosso dell’energia tra i più alti d’Europa proprio a causa dell’insicurezza che il suo sistema elettrico subisce dall’obsolescenza e dalla scarsa modulabilità delle centrali nucleari in servizio.
Il nucleare ha costi spostati avanti nel tempo più alti di quelli di altre fonti?
Sì. Di gran lunga.
Oltre alla complessa gestione delle scorie, la dismissione di impianti di generazione elettrica nucleare è resa complessa e onerosa dalla gestione del materiale radioattivo, che include, oltre al combustibile, le parti delle macchine che vengono irraggiate durante il funzionamento. Sforzi tecnici e organizzativi enormi e caratterizzati da criticità e di conseguenza anche nelle economie di mercato finiscono per essere socializzati.
In Italia lo smaltimento delle quattro centrali, perlopiù piccole, in servizio al momento del referendum del 1987 sta risultando lento e oneroso. Il costo si attesta a circa 20 miliardi e a 35 anni dal referendum è lontano dall’essere concluso. Questi costi di smaltimento sono a carico delle bollette elettriche attraverso una componente specifica (A2RIM). Dal 2010 al 2021 il costo derivante da questa componente. è stato di 3,9 miliardi di euro (nell’ambito delle ultime misure di contenimento delle bollette attualmente in vigore questo onere è stato trasferito temporaneamente sulla fiscalità generale).
Inoltre, ad oggi l’Italia non ha ancora individuato un sito di deposito delle scorie. Lo scorso 15 marzo 2022 Sogin, la società pubblica che si occupa della dismissione degli impianti e della gestione dei rifiuti radioattivi, ha consegnato la mappa aggiornata dei luoghi idonei a ospitare il deposito (CNAI – Carta Nazionale delle Aree Idonee) al MiTE, che dovrà valutarla e approvarla. Una volta pubblicata si apriranno le candidature e inizierà la fase di negoziazione per trovare l’indirizzo finale del deposito nazionale, che difficilmente si concluderà in tempi brevi. I rappresentati dei siti considerati idonei si sono infatti espressi contrari e vorrebbero essere esclusi dalla possibile rosa di scelta.
Il nucleare è adatto a complementare le fonti rinnovabili?
No. Gli impianti termonucleari non sono adatti a modulare la produzione elettrica, cioè a modificarla rapidamente sulla base del fabbisogno di consumo al netto della produzione da fonti rinnovabili.
I reattori a fissione, anche se la reazione primaria viene interrotta, continuano a produrre calore a lungo e tale calore dev’essere smaltito con dispendio di energia per non danneggiare il nocciolo. Inoltre, le procedure di transizione tra diversi livelli di potenza sono generalmente più complesse rispetto a quelle di altre fonti programmabili di generazione elettrica.
Infine, i costi fissi altissimi di un impianto termonucleare rendono ulteriormente improponibile, anche sul piano meramente economico, pagare una centrale per farla funzionare in modo discontinuo.
In alcuni casi, come in Regno Unito con il reattore di Sizwell B, il gestore della rete ha pagato – socializzando tali costi – per ridurre la produzione complessiva dell’impianto, evitando una sovrapproduzione in periodo di bassa domanda, a causa della bassa flessibilità della produzione.
Di conseguenza, in un contesto in cui servono impianti in grado di modulare la produzione variabile delle rinnovabili, la rigidità del nucleare è un problema e non un sollievo per il sistema elettrico, e aumenta la necessità di accumuli. Se è vero che varie forme di accumulo saranno necessarie per la decarbonizzazione dei sistemi elettrici (idrogeno, idroelettrico, sistemi di gestione della domanda, batterie – si veda il caso di successo della California), è altrettanto vero che una fonte di energia rigida come il nucleare renderebbe ancora più critico il ricorso alla modulazione, anziché semplificare la gestione della rete e razionalizzare i costi di sistema.
Sta arrivando il nucleare “pulito”?
Purtroppo non a breve, se mai si realizzerà. Secondo una vecchia battuta, il nucleare a fusione è quella cosa che da cinquant’anni si ritiene arrivi entro trent’anni.
Con il nucleare a fusione si risolverebbe il problema delle scorie legate al combustibile, ma verosimilmente non quello legato alla radioattività di altri materiali irraggiati.
La ricerca sta da tempo cercando soluzioni tecnologiche per reattori a fusione, anche attraverso il programma internazionale di ricerca ITER, a cui partecipa anche l’Italia, con un sito di sperimentazione a Frascati. Entro la fine del 2025 si dovrebbe creare il primo plasma, che dovrebbe raggiungere la piena potenza entro il 2035.
Il primo reattore dimostrativo, il progetto DEMO, se tutto procede secondo i piani e in forte discontinuità rispetto ai ritardi del passato, potrebbe essere pronto non prima del 2050. Opzioni più a breve termine di un nucleare senza scorie sono state tentate, per ora senza successo in termini di applicazioni commerciali, con gli impianti a fissione autofertilizzanti, tra i quali quello sperimentale di dimensioni industriali “Superphoenix” in Francia, partecipato da Enel, poi chiuso nel 1996.
Anche se i tempi venissero rispettati, l’impianto DEMO è un prototipo ancora sperimentale necessario a predisporre il successivo sviluppo delle filiere di reattori commerciali capaci di trasformare l’energia della fusione nucleare in energia elettrica nella seconda metà del secolo. Una prospettiva non congruente con le tempistiche necessarie ad affrontare il cambiamento climatico.
Il coinvolgimento in prima fila dell’Italia nella ricerca mondiale in materia dimostra come i referendum sul nucleare e le decisioni post-Fukushima non limitino la ricerca in materia nel nostro Paese. Ma sarebbe una strategia altamente inefficacie e rischiosa dedicare tutte le risorse per rispettare o addirittura cercare di anticipare la scadenza di una tecnologia incongrua con i tempi della decarbonizzazione e che finora non ha mai dato risultati positivi.
Cosa sono il nucleare di “quarta generazione” e i reattori modulari?
Con “quarta generazione” ci si riferisce a reattori SMR (small modular reactor) di taglia ridotta, più compatti e quindi assemblabili direttamente negli stabilimenti del costruttore con maggiore standardizzazione ed economicità. Per ora non ci sono impianti commerciali ma esistono produttori, anche in Europa, che ne stanno iniziando lo sviluppo.
Gli SMR con la tecnologia più prossima allo sviluppo commerciale non risolverebbero il problema delle scorie. Inoltre, se distribuiti sul territorio richiederebbero una moltiplicazione dei presidi di sicurezza (nonché maggiori difficoltà di autorizzazione) che potrebbero annullarne i vantaggi attesi di economicità costruttiva, a meno di essere accorpati in pochi siti.
Il nucleare progettato oggi è un’opzione per contribuire agli obiettivi di decarbonizzazione dell’Italia?
No. Il contributo del nucleare arriverebbe troppo tardi per essere rilevante. Nel percorso di decarbonizzazione, come da impegni europei e G7, il settore elettrico italiano dovrà raggiugere la quasi completa decarbonizzazione entro il 2035.
Questo passaggio costituisce il pilastro portante del processo di decarbonizzazione degli altri settori – civile, industriale e trasporti – che avverrà nel decennio successivo e per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. I tempi di realizzazione del nucleare in Italia non sono compatibili con queste tempistiche.
In generale il nucleare è un tema rilevante per le politiche della prossima legislatura?
No.
Da un lato perché non è in discussione il proseguimento dell’impegno italiano nella ricerca in materia (in particolare con Enea).
Dall’altro perché non esistono decisioni nell’arco della legislatura che possano rendere il nucleare, di attuale generazione o a fusione, disponibile entro il 2030 o 2035, in un paese come l’Italia che non è dotato oggi di impianti né del contesto istituzionale per gestirlo, non avendo ancora risolto nemmeno il tema del deposito delle scorie.
Parlare di nucleare oggi in Italia significa parlare di una tecnologia che non è compatibile con i costi e i tempi della decarbonizzazione. Anche chi parla di nucleare non può esimersi da indicare quale sarà il sistema elettrico italiano nel 2030, 2035 e 2050 e quale sarà il contributo delle rinnovabili. Secondo Elettricità Futura, il contributo delle fonti rinnovabili nel settore elettrico al 2030 può raggiungere l’84%, con l’installazione di 85 GW di nuovi impianti rinnovabili. La conseguente occupazione di suolo è comunque minima, solo lo 0,3% del territorio nazionale. Al 2035 il settore elettrico sarà quasi interamente decarbonizzato, come da obiettivo e impegno G7.
Quindi, se la discussione in Italia sul nucleare è una distrazione rispetto alle politiche del clima, ai costi per famiglie e imprese e alla sicurezza energetica del paese, metterci capitali pubblici sarebbe anche una distrazione di risorse economiche rispetto alle priorità di penetrazione delle rinnovabili e delle loro tecnologie abilitanti.
La tassonomia europea considera il nucleare una tecnologia verde?
Sì. L’atto delegato approvato dalla Commissione europea il 2 febbraio 2022 include i progetti di generazione elettrica nucleare e a gas che possono ricevere, a determinate condizioni, l’etichetta “verde” ed essere presentati agli investitori come “allineati con la transizione”.
Questo però non significa che una tassonomia con nucleare e gas sia conveniente per l’Italia (per i motivi di cui sopra e si veda un approfondimento dedicato qui) e che sia allineata con la scienza e le raccomandazioni degli esperti. Infatti, la scelta di includere nucleare e gas va contro il parere scientifico della Piattaforma sulla Finanza Sostenibile, il gruppo tecnico di esperti nominato dalla Commissione stessa per una valutazione indipendente. Inoltre, il rapporto a favore del nucleare del Joint Research Centre (JRC) della Commissione è stato criticato da molte fonti autorevoli, tra cui il Comitato scientifico sulla salute, ambiente e rischi emergenti della Commissione (SCHEER), a cui la Commissione stessa aveva chiesto un parere, l’Ufficio federale tedesco per la sicurezza delle scorie nucleari, l’Istituto austriaco di ecologia e la Fondazione Heinrich Böll.