La comunità energetica in Italia con la giusta fusione delle due normative

Una proposta per definire un’unica tipologia di comunità dell'energia per il nostro paese che punti a valorizzarla ai fini della transizione energetica e a diffonderla più rapidamente.

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Di organizzazioni collettive, la cui principale, ma spesso non unica, finalità è la produzione e vendita di elettricità ai propri associati, ne esistono in Italia e in Europa da più di un secolo.

La loro distribuzione geografica non è mai stata omogenea, per effetto di due fattori, uno economico (reddito medio della popolazione), l’altro politico-culturale (presenza di esperienze cooperative). Ad esempio, in Italia sono sempre state concentrate nelle aree settentrionali.

L’eterogeneità delle esperienze pregresse si riflette anche sulla compresenza, oggi, di due normative diverse:

  • una nella RED II, che definisce la comunità di energia rinnovabile (CER)
  • l’altra nella direttiva sul mercato elettrico, che norma la comunità energetica dei cittadini (CEC).

Poiché entrambe hanno in comune la loro finalità, cioè offrire ai propri soci o al territorio in cui operano benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità, anziché generare profitti finanziari, nell’attuazione in Italia delle direttive converrebbe definire un’unica tipologia di comunità, che sfrutti al meglio le potenzialità di ciascuna ai fini della transizione energetica.

Fonti rinnovabili o fossili? Quale vettore?

Per entrambe è previsto che possano svolgere attività di produzione, distribuzione, fornitura, consumo, condivisione e accumulo di energia, nonché di prestazione di servizi energetici, ma va prescelta la soluzione CER, perché deve essere alimentata da energia rinnovabile di qualsiasi tipo e può produrla con qualunque vettore energetico (elettricità, calore, gas).

Invece, nella CEC non è specificata la fonte di energia (può quindi essere anche fossile) e, dato l’oggetto della direttiva (mercato elettrico), il principale vettore energetico può essere solo uno.

Governance e partecipazione

Entrambe, ma in modo più netto la CER, escludono dalla loro governance le imprese di grandi dimensioni o il cui business principale è nel settore elettrico.

Anche in questo caso, la partecipazione prevista per la CER, che deve essere aperta a singole persone, autorità locali, micro, mini e medie imprese, compresi i consumatori appartenenti a famiglie a basso reddito o vulnerabili, la fa preferire alla CEC, che può accettare qualunque soggetto, anche un’impresa di grandi dimensioni, e non prevede misure di inclusione per i consumatori in difficoltà.

Dimensione locale o più estesa?

Le CER devono organizzarsi in prossimità degli impianti a fonti rinnovabili che le alimentano. Anche se non definite, le loro dimensioni sono locali.

Di nuovo, la normativa in materia è quindi preferibile a quella delle CEC, che non menziona vincoli territoriali, per cui teoricamente potrebbero estendersi all’intero territorio nazionale, anzi, addirittura travalicarne i confini, visto che gli Stati membri possono prevedere che siano aperte alla partecipazione transfrontaliera.

Proprietà degli impianti e della rete

Per quanto concerne la proprietà degli impianti e della rete elettrica, nella fusione tra le due normative sono invece preferibili le soluzioni proposte dalla CEC.

Le CER devono, infatti, sviluppare e avere la proprietà dei propri impianti, mentre per le CEC quest’obbligo non è previsto. Per le prime non è contemplata alcuna restrizione alla proprietà delle reti (quindi anche di quella elettrica); per le CEC spetta invece agli Stati membri stabilire se hanno il diritto di possedere, istituire, acquistare o locare reti di distribuzione e di gestirle autonomamente.

Almeno in una fase iniziale, difficilmente una CER si doterà di rete elettrica propria, come sarebbe consentito dalla RED II. La sua gestione presenta infatti complessità superiori a quelle di una rete di distribuzione, in quanto il numero ridotto di carichi allacciati riduce la compensazione statistica dei relativi connessioni o distacchi dalla rete. Inoltre, la digitalizzazione spinta, in particolare richiesta quando alla rete sono allacciate produzioni rinnovabili non programmabili, implica competenze di gran lunga superiori a quelle necessarie solo una ventina d’anni fa.

Esiste quindi il rischio di mettere a repentaglio il buon funzionamento e la sicurezza della rete, per cui è auspicabile una normativa ad hoc, che in materia stabilisca criteri molto stringenti e, almeno in una fase iniziale, escluda la possibilità di avere una rete propria, come ha stabilito la Legge Milleproroghe.

Contrariamente alla normativa CER, quella CEC, non rendendo obbligatori lo sviluppo e la proprietà degli impianti di produzione, nella fase iniziale facilita la diffusione della comunità energetiche, che non sarebbero costrette farsi carico dei costi di investimento e delle difficoltà tecniche e gestionali degli impianti di generazione.

Come soluzione va quindi preferita, naturalmente con l’obbligo di garantirsi la necessaria energia rinnovabile mediante contratti di approvvigionamento a lungo termine (PPA) con impianti installati nelle vicinanze della comunità.

Conclusioni

Stranamente nessuna delle due direttive si preoccupa di introdurre vincoli per impedire che, invece di rappresentare la più estesa realizzazione di autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente, le comunità energetiche possano trasformarsi di fatto in UVAP.

Nella fusione tra le due, sarebbe quindi importante prevedere che le comunità energetiche acquisiscono e mantengono la qualifica di soggetti produttori di energia solo se annualmente la quota dell’energia prodotta, destinata all’autoconsumo da parte dei soci, non è inferiore a una determinata quota (ad esempio stabilita al 60% del totale come prevede legge regionale della Puglia o al 70% nel caso del Piemonte).

Una fusione come quella qui ipotizzata, che utilizza le norme più appropriate di ciascuna direttiva, contribuirebbe a rendere più estesa e tempestiva la diffusione di uno strumento fondamentale per convincere i cittadini che, se diventano parte attiva del processo di decarbonizzazione, possono farlo coincidere con uno sviluppo socialmente inclusivo.

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