Il cosiddetto “gas flaring,” cioè l’abitudine delle aziende petrolifere di bruciare il gas naturale che si sprigiona spontaneamente nel corso delle estrazioni di greggio, è una pratica vecchia di 160 anni.
Ha pesato e continua a pesare sui cambiamenti climatici, producendo ogni anno oltre 350 milioni di tonnellate di emissioni equivalenti di CO2, oltre a emissioni di metano e carbone nero non combuste.
Il flaring provoca quindi un doppio danno: inquina e, allo stesso tempo, spreca una risorsa naturale che avrebbe potuto fornire energia a milioni di persone nei paesi a basso e medio reddito. Nonostante i suoi evidenti svantaggi, il flaring continua ancora oggi un po’ in tutto il mondo, come si vede nell’illustrazione, a causa di una serie di ostacoli tecnici, normativi ed economici.
È una questione annosa che ha assunto ancora maggiore urgenza poiché, per la prima volta in cinque anni, nel 2018, il flaring globale è tornato ad aumentare. Secondo le stime della Banca Mondiale, i dati satellitari hanno mostrato un aumento del 3% nel 2018 pari a 145 miliardi di metri cubi, equivalenti al consumo totale annuo di gas dell’intera America centrale e meridionale.
Come si spiega tale inversione di tendenza?
Secondo la Global Gas Flaring Reduction Partnership (GGFR) – composta da oltre 80 governi, compagnie petrolifere e istituzioni internazionali coordinate dalla Banca mondiale – l’aumento è legato al balzo della produzione di petrolio negli Stati Uniti, dove il flaring è aumentato di circa il 48% dal 2017 al 2018 e la produzione di petrolio è aumentata del 33%.
I dati satellitari hanno indicato che l’aumento del flaring si è concentrato quasi esclusivamente nei bacini petroliferi di scisto, il cosiddetto “shale oil,” di Bakken, nel Nord Dakota, e di Permian e Eagle Ford, in Texas. Queste aree hanno visto un rapido sviluppo nel 2018, con una produzione di petrolio di scisto in aumento di circa il 29% a Bakken, del 40% a Permian e del 15% a Eagle Ford.
Al flaring si aggiunge poi la pratica ancora più dannosa del cosiddetto “venting,” cioè il rilascio libero in atmosfera di metano non combusto, un gas naturale ancora più climalterante della CO2 che si forma quando il gas naturale viene bruciato.
Secondo i dati raccolti dalla società di analisi Rystad Energy e compilati dal New York Times, il flaring e il venting di Exxon sono aumentati sia in termini assoluti che in percentuale del gas prodotto. Exxon ha infatti bruciato o liberato nell’atmosfera il 70% in più di gas nel 2018 rispetto all’anno precedente.
I dati mostrano che anche BP ha aumentato il flaring e lo sfiato di metano. BP ha bruciato il 17% del gas prodotto a Permian tra aprile e giugno di quest’anno – diventando la società peggiore quanto a flaring in termini percentuali tra i maggiori 50 produttori.
Da cosa è dipeso tale andamento?
Il flaring e il venting sono pratiche legali negli stati USA interessati. Oltre a ciò, lo sfiato o il flaring si verificano perché spesso non ci sono condutture vicine ai pozzi per catturare e trasportare il gas.
Ciò dipende a sua volta anche dal fatto che lo shale oil e lo shale gas si estraggono ricorrendo al cosiddetto “fracking,” cioè la fratturazione idraulica della crosta terrestre con getti ad alta pressione che liberano gli idrocarburi imprigionati nella roccia.
I pozzi ricavai nello scisto si esauriscono molto rapidamente, tanto che la produzione petrolifera da fracking scende del 70% nel primo anno, rispetto al 5% della perforazione verticale convenzionale. Ciò rende particolarmente onerosa la costruzione di condutture del gas per pozzi destinati a prosciugarsi molto velocemente. Poiché i prezzi del gas sono bassi, per le compagnie del settore è molto più economico scartare il gas naturale piuttosto che provare a catturarlo e venderlo. Tengono così solo il petrolio, che possono vendere a prezzi molto più alti.
“Sebbene non possiamo controllare tutti i fattori che contribuiscono alla combustione del gas, possiamo e dobbiamo affrontare i quadri normativi, le lacune infrastrutturali e tecnologiche per riuscire a utilizzare o, perlomeno, a conservare il gas associato” alle estrazioni petrolifere, ha detto Riccardo Puliti, Direttore Senior della Banca Mondiale e Responsabile del settore Energia e Pratiche Estrattive Globali.
Nel frattempo, anche in paesi alle prese con disordini politici e conflitti si è registrato un aumento del flaring. In Venezuela, per esempio, la combustione al pozzo del cosiddetto “gas associato” è aumentata vertiginosamente, mentre la produzione di petrolio è fortemente diminuita – segni di un paese in un profondo stato in crisi, simili a quelli osservati precedentemente anche in Siria e Yemen.
Il flaring è invece diminuito in Angola, con un calo del 27%. Il gas associato che veniva prima bruciato in misura maggiore è stato invece esportato tramite un impianto di gas naturale liquefatto. Si tratta di uno sviluppo positivo, sia per il paese africano che per la lotta contro la crisi climatica. In Siria, il gas flaring è diminuito addirittura del 42%, cosa che indica il ritorno ad una maggiore normalità delle operazioni nei giacimenti petroliferi, dopo un lungo periodo di conflitto armato.
ENI, da parte sua, ha comunicato che le proprie emissioni da flaring sono calate dell’8% nel 2017 rispetto all’anno prima, grazie soprattutto ai miglioramenti registrati presso i pozzi del Turkmenistan, con investimenti di 39 milioni di euro nel 2018 per ridurre il flaring, particolarmente in Nigeria e Libia.
Anche tutte le altre maggiori società petrolifere del mondo, tra cui Exxon ed BP, hanno annunciato di aver fatto progressi nel tagliare le emissioni globali di metano e di essere sulla buona strada per riuscire a contenere tali emissioni sotto lo 0,25% della produzione mondiale entro il 2025.
Ma i gruppi ambientalisti sono scettici. “Ci dicono di fidarsi”, ha dichiarato al New York Times Ben N. Ratner, Direttore Senior dello Environmental Defense Fund, un gruppo che collabora con le compagnie petrolifere per monitorare e ridurre le emissioni di metano. “Non è stato analizzato il modo in cui sono arrivati a quei numeri. E non abbiamo tutti i dati, la trasparenza, per valutare se quanto dicono sia accurato o meno”.