Tra le tante conseguenze dell’emergenza coronavirus che riguardano l’energia – il calo della domanda elettrica, la riduzione temporanea delle emissioni inquinanti, i prezzi negativi del petrolio, per citare le più importanti – bisogna includere la frenata dei nuovi investimenti nel settore minerario.
La sicurezza delle forniture di parecchi minerali è indispensabile per sostenere la transizione energetica verso le fonti rinnovabili: litio, cobalto, nickel, molibdeno, platino, terre rare, sono tutti minerali ampiamente utilizzati nella produzione di turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, batterie per gli impianti di accumulo stazionario e per le auto elettriche.
Tuttavia, come emerge da una recente analisi della IEA (International Energy Agency), nelle ultime settimane molte compagnie minerarie hanno posticipato o eliminato nuovi progetti già pianificati, a causa del prolungarsi della crisi economica e dei bassi prezzi; la IEA stima che le società del settore taglieranno mediamente del 30% il budget annuale per esplorare nuovi giacimenti minerari, rispetto al 2019.
E per alcuni minerali, ad esempio nickel e rame, il mercato potrebbe sbilanciarsi sul lato della domanda, con carenze di forniture e volatilità dei prezzi, quando ci sarà la ripresa economica post-Covid, soprattutto se i governi metteranno le rinnovabili e le batterie al centro dei rispettivi piani di rilancio dopo la pandemia.
Tra l’altro, molte delle miniere di rame e nickel in attività sono già vicine ai loro picchi di produzione, afferma l’Agenzia internazionale dell’energia.
Il punto, osservano gli esperti della IEA, è che le tecnologie rinnovabili sembrano immuni ai rischi geopolitici, o comunque meno soggette a questi rischi, al contrario di fonti fossili come gas e petrolio, ma non è così.
Stiamo parlando, infatti, di mercati molto concentrati: per quanto riguarda litio e cobalto, i primi tre paesi produttori di questi due minerali controllano più di tre-quarti dell’intera produzione mondiale. E lo stesso vale per le attività di raffinazione dei minerali “grezzi”, con la Cina che assorbe il 50-70% della raffinazione di litio e cobalto su scala mondiale.
Il grafico seguente (cliccare sopra per ingrandire), tratto dall’analisi pubblicata online dalla IEA, riassume il peso percentuale dei primi tre produttori mondiali di diverse risorse e minerali.
Si vede chiaramente che i minerali utilizzati per le rinnovabili si muovono in mercati molto chiusi, dove pochi paesi controllano siti produttivi e investimenti.
E per di più, in diversi casi le attività minerarie si distinguono per una scarsa o nulla attenzione alla tutela ambientale e alla sicurezza dei lavoratori.
In Congo, ad esempio, spiega la IEA, circa il 20% del cobalto proviene da piccole miniere artigianali, dove i minatori estraggono il cobalto con attrezzi rudimentali in condizioni pericolose per la salute (vedi anche l’articolo Due criticità degli accumuli: il riciclo e la carenza di cobalto).
Con il prossimo grafico, osserviamo che le rinnovabili utilizzano molti più minerali rispetto alle fonti tradizionali: ad esempio, l’eolico offshore, per ogni MW installato, richiede oltre 17.000 kg di minerali, contro circa mille kg richiesti dal gas naturale e quasi 2.000 di cui ha bisogno ogni nuovo MW installato nelle centrali a carbone.
Quindi che cosa si può fare?
Secondo la IEA, i paesi importatori di minerali dovrebbero monitorare con attenzione il rapporto tra domanda e offerta dei diversi elementi “critici” per la transizione energetica, cercando di chiudere contratti di lungo termine per le forniture e stringendo alleanze strategiche con i paesi produttori.
E poi dovrebbero investire di più in ricerca e sviluppo per il riciclo e recupero dei minerali dalle tecnologie “a fine vita”, in modo da ridurre la dipendenza dalle importazioni.
(Articolo pubblicato originariament l’11 maggio 2020)