Le centrali a gas “hydrogen ready” sono solo marketing?

Uno studio dello Ieefa spiega perché bruciare idrogeno nelle centrali a metano è una soluzione poco praticabile, anche per ridurre le emissioni.

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“Poco più che marketing”: questo il duro giudizio che l’Institute for Energy Economics and Financial Analysis dà dei progetti per centrali a gas hydrogen ready.

Per il think tank con sede in Usa, che ha dedicato alla questione un report, ci sono troppi ostacoli e domande senza risposta associati all’uso dell’idrogeno nelle turbine alimentate a metano, in particolare per quanto riguarda gli enormi costi e i lunghi tempi che sarebbero necessari per costruire l’infrastruttura necessaria.

Almeno per i prossimi dieci anni qualsiasi centrale a gas “hydrogen ready” funzionerà quasi completamente, se non totalmente, utilizzando il metano, spiega l’analisi, centrata sul mercato statunitense ma valida anche per la realtà europea.

Si citano, ad esempio, i due progetti di Duke Energy in North Carolina, per due turbine a combustione a ciclo semplice vicino all’attuale impianto a carbone Marshall e una a ciclo combinato alla centrale a carbone di Roxboro. Nonostante per questi impianti, da 2.260 MW di capacità complessiva, Duke parli di “turbine a gas hydrogen ready”, non prevede di iniziare a utilizzare l’idrogeno nelle nuove unità prima del 2035 e anche allora solo a un tasso di miscelazione bassissimo: a partire dall’1% di idrogeno su 99% di metano.

“I progetti di Duke e gli altri proposti oggi non sono altro che tradizionali impianti a gas con parole rispettose dell’ambiente. I regolatori statali e la comunità finanziaria devono valutarli su questa base”, sottolineano gli analisti dello Ieefa.

Tre gli ostacoli principali a un uso diffuso dell’H2 come sostituto del metano nelle centrali, si spiega, il primo è la mancanza di idrogeno, oggi quasi tutto consumato nei settori petrolchimico e dei fertilizzanti. Secondo i calcoli dello Ieefa, fare andare a idrogeno i 15 più grandi impianti CCGT degli Usa ora a metano richiederebbe il raddoppio dell’attuale produzione statunitense e sostituirebbe meno del 10% dell’elettricità generata dal metano ogni anno.

Seconda criticità sono le infrastrutture, che non ci sono: portare l’idrogeno nelle centrali richiederebbe la costruzione di migliaia di km di nuove condutture.

Manca anche la capacità di stoccaggio: la fornitura di metano è affidabile grazie alla vasta rete di depositi sotterranei sparsi in tutto il Paese; non esiste un’infrastruttura paragonabile per l’idrogeno. Costruirla sarebbe costoso e dispendioso in termini di tempo, con molte domande ancora senza risposta riguardo alla sicurezza dei siti.

Nel valutare questi tre enormi problemi infrastrutturali, sottolineano gli autori del report, è essenziale tenere a mente che l’idrogeno fornisce solo vantaggi marginali nel ridurre le emissioni di CO2, se non si miscelano al metano quantitativi molto elevati di H2, come illustra il grafico seguente.

A bassi livelli di miscelazione dell’idrogeno, i costi infrastrutturali supererebbero dunque di gran lunga qualsiasi beneficio ambientale, si spiega. All’estremo opposto, miscelare grandi quantità di idrogeno verde nel metano consumerebbe tanta energia rinnovabile che sarebbe meglio utilizzare direttamente per sostituire la produzione esistente di combustibili fossili.

L’idrogeno, prosegue il report, ha anche altri problemi ambientali. Produce alti livelli di ossidi di azoto (NOx) durante la combustione. Ciò potrebbe avere un impatto significativo sull’inquinamento atmosferico locale a meno che le emissioni non siano controllate, il che richiederebbe altri costi, si legge nel documento.

L’idrogeno ha anche un impatto indiretto sul cambiamento climatico che è oggetto di continue ricerche. Un recente studio sottoposto a peer review ha indicato che il potenziale di riscaldamento globale dell’idrogeno è 11,6 volte più forte della CO2 su un arco di tempo di 100 anni se si tiene conto degli impatti su altri gas (rispetto a 28 volte per il metano).

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