La Svezia punta ad azzerare anche le emissioni di CO2 dei prodotti importati

La proposta è del Comitato parlamentare per gli obiettivi ambientali al governo. Il traguardo net-zero al 2045 diventerebbe così molto più stringente.

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La Svezia potrebbe diventare il primo Paese al mondo a tenere conto delle emissioni di CO2 associate al consumo dei prodotti importati, per il raggiungimento del suo obiettivo nazionale net-zero al 2045.

Lo prevede una proposta presentata al governo dal Comitato per gli obiettivi ambientali (Miljömålsberedningen), che comprende tutti gli otto partiti in Parlamento.

Nel suo rapporto preliminare, il comitato raccomanda di allargare i confini della politica climatica svedese, includendo tra i suoi obiettivi di lungo termine anche gli impatti ambientali delle sue esportazioni e dei trasporti aerei e marittimi internazionali.

Al momento la Svezia ha fissato il traguardo di azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2045, ma tale obiettivo comprende solo le emissioni generate sul proprio territorio, ad esempio dalle sue industrie, dai suoi edifici e dai veicoli che circolano sulle sue strade.

Ora invece si propone di calcolare anche le emissioni rilasciate in altri Paesi, collegate alla realizzazione di prodotti importati in Svezia e lì consumati, tra cui materiali da costruzione, elettronica, alimentari e altri ancora. Ciò richiederebbe, con ogni probabilità, rilevanti cambiamenti nelle abitudini di consumo e nei comportamenti individuali, in modo da favorire lo sviluppo di un sistema economico più circolare, incentrato su riciclo, riuso, riparazione, prodotti locali.

In sostanza, se il governo accoglierà queste raccomandazioni, il traguardo net-zero 2045 diventerà molto più stringente, perché secondo una nota della Swedish Society for Nature Conservation, il 60% circa delle emissioni svedesi è “creato” fuori dei confini nazionali e quindi rimane escluso dalle statistiche ufficiali sugli impegni climatici.

Vedremo se questa proposta andrà avanti: diversi aspetti sono molto complessi da attuare, in particolare i metodi con cui tracciare le emissioni che derivano dai consumi di prodotti importati.

Più in generale, a livello europeo si sta discutendo la possibile implementazione di una tassa alla frontiera sulla CO2, proprio al fine di considerare più globalmente il problema delle emissioni.

In gergo tecnico si parla di un meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera (Cbam: Carbon border adjustment mechanism); a metà marzo, il Consiglio Ue ha raggiunto un accordo comune generale sul regolamento, proposto dalla Commissione Ue a luglio 2021, che istituisce questo meccanismo.

In pratica, la Ue intende applicare il principio “chi inquina paga” alle importazioni di alcuni prodotti ad alto contenuto di CO2, provenienti da Paesi in cui le regole ambientali sono meno severe rispetto a quelle europee. Si partirebbe nel 2026.

I settori coinvolti sarebbero: cemento, alluminio, fertilizzanti, produzione di energia elettrica, ferro e acciaio.

Un punto delicato è come far funzionare il Cbam in parallelo al mercato europeo del carbonio Ets (Emissions trading system), che già coinvolge migliaia di industrie energivore con elevate emissioni di anidride carbonica.

Difatti, il nuovo meccanismo sostituirà gradualmente le attuali misure previste in ambito Ets – le allocazioni gratuite di quote di CO2 – volte a ridurre il rischio di carbon leakage, la delocalizzazione delle attività produttive in Paesi terzi con minori restrizioni ambientali.

Tuttavia, occorre evitare che le imprese Ue abbiano un doppio vantaggio, dato dalle quote gratuite assegnate in casa e dalla tassa alla frontiera sui prodotti concorrenti.

Gli importatori, in base allo schema di regolamento tracciato da Bruxelles, dovranno acquistare un certo numero di certificati digitali, equivalente alla quantità di anidride carbonica incorporata nei beni importati. Ogni certificato corrisponderà a una tonnellata di CO2 e il suo prezzo sarà correlato al prezzo medio settimanale della CO2 sul mercato Ets.

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