Serve un nuovo paradigma energetico, e anche rapidamente

Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale che faccia nascere un nuovo paradigma energetico, un po’ più semplice e alla portata di tutti, e non promesse di sviluppo insostenibili.

ADV
image_pdfimage_print

La sintesi del concetto di paradigma, descritta da Giovanni Goldoni nell’articolo “Un nuovo paradigma dell’energia” pubblicato sulla rivista “Energia” nel lontano gennaio del 2007, sembra calzare perfettamente alla ricca esposizione che ne fa Thomas Kuhn nella “Struttura delle rivoluzioni scientifiche”.

“Il paradigma è un insieme di regole condivise dalla comunità scientifica, con le cui combinazioni si cercano soluzioni ai rompicapo (puzzle solving) della natura e della scienza. In altre parole, il paradigma si esprime tramite una matrice multidisciplinare che definisce i valori, tra i quali uno dei più importanti è la possibilità di effettuare previsioni accurate”.

Ho approfittato anch’io per riprendere un testo cui mi ero appassionato in una vita precedente; la mia edizione italiana è del ’69, ma comunque un’opera di una notevole lucidità e attualità.

Se un paradigma non fornisce più previsioni accurate, esso deve essere messo in discussione. Metterlo in discussione tuttavia, non significa necessariamente abbandonarlo e crearne un altro, o semplicemente cambiarne alcune parti, come se fosse un setaccio da farina che comincia ad avere qualche buco e, dalle maglie ormai sfatte, comincia a passare anche qualche topo morto.

Cambiando le “combinazioni” con cui si classificano le regole di un dato paradigma, oppure sviluppando nuovi modelli e schemi comunemente accettati, si può cercare di mantenere “la promessa di successo” che è l’essenza della validità o meno del paradigma stesso.

Purtroppo, noi della “scienza normale” siamo condannati a realizzare quelle promesse, direbbe Kuhn, “estendendo la conoscenza di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con le previsioni del paradigma e articolando ulteriormente il paradigma stesso”.

Ma l’evoluzione della politica energetica è evoluzione paradigmatica e la sua “scienza normale” è ormai, fuor di metafora, alla canna del gas.

Prima degli anni ‘80 il paradigma del sistema energetico italiano si basava fondamentalmente sulla proprietà pubblica e sul monopolio integrato verticalmente.

La politica energetica era, di fatto, nelle mani di Enel ed Eni che garantivano energia elettrica e prodotti petroliferi in modo più o meno efficiente e con prezzi rigorosamente controllati. È dopo la crisi petrolifera del ‘74 che nel paradigma consolidato cominciano a entrare termini come risparmio energetico, efficienza energetica, fonti rinnovabili.

Ed è proprio la liberalizzazione delle fonti rinnovabili, avviata con la legge 9/91 e proseguita con il “famigerato” Cip/6 del ’93, che farà da battistrada alle successive privatizzazioni e liberalizzazioni, fatte sempre con la logica del Cip/6 e, quindi, sempre a favore di qualche categoria economica, ma che indica sempre nuove rotte e nuove promesse, utilizzando parole d’ordine come privatizzazione, liberalizzazione, mercato.

Ci vorrà la Commissione europea per equilibrare gli eccessi liberisti, con l’introduzione del tema della sicurezza degli approvvigionamenti e della dimensione ambientale, e definire i tre pilastri della politica energetica, assunti come il faro paradigmatico dello sviluppo sostenibile: diversificazione, competitività, tutela ambientale.

Attualmente, le preoccupazioni sulle forniture di combustibili, sui prezzi alti e, non ultimo, l’ombra del cambiamento climatico hanno riacceso il dibattito sulle rinnovabili e sul risparmio energetico, forse questa volta in modo meno maldestro, cercando di non mettere un collettore solare su una casa senza muri e senza finestre, ma prima fare i muri ben isolati e poi, eventualmente, metterci i pannelli solari.

E possono essere proprio queste ricombinazioni, fortemente culturali, recuperate da una nostra storia neanche tanto lontana, ancorché pilotate da una cinica quanto astuta informazione mercantile, che potrebbe cominciare a gettare i semi per un vero cambiamento paradigmatico, che può essere epocale e che spera di far diventare durevoli le promesse di benessere che tutti i paradigmi cercano di inseguire.

Vediamo due ricombinazioni che possono risultare strategiche:

  1. L’efficienza energetica e il risparmio energetico sono risorse che hanno valore economico; questo valore deve essere messo a confronto con il costo delle fonti fossili risparmiate al lordo delle esternalità che le fonti fossili producono.
  2. Le fonti fossili devono servire solo per integrare le fonti rinnovabili laddove queste non riescano a soddisfare i fabbisogni di energia. Un importante corollario dice che le fonti fossili, non debbano sostituire le rinnovabili, quando queste ultime, valutate economicamente sul ciclo di vita, siano più convenienti.

Per consolidare il primo assunto occorre operare prima un ribaltamento culturale.

Spesso l’uso del termine “risparmio energetico” evoca povertà, privazione, miseria. La povertà fa paura, nessuno vuole fare sacrifici, viviamo nel benessere e vogliamo giustamente conservarlo. Ma, se “risparmio energetico” evoca sacrifici e ristrettezze, “efficienza energetica” evoca eccellenza, superiorità, primato.

Ugualmente il secondo assunto ha una genesi fortemente culturale. Anche se nelle abitazioni tradizionali e nelle stagioni fredde il fabbisogno di energia da fonti fossili supera di gran lunga gli apporti solari passivi, ciò non è un buon motivo per non considerarle integrative.

Nella natura delle cose e nella storia dell’umanità, abbiamo cominciato a integrare, con il carbone prima, e il petrolio poi, la necessità di energia sempre più concentrata e intensa, che la natura e il sole non riuscivano più a fornirci. Ritornare a una gerarchia mentale e culturale delle priorità è il primo passo da compiere.

Conseguire Efficienza Energetica integrandola con Fonti Rinnovabili, tuttavia, esige l’acquisizione fondamentale del cosiddetto “Capacity Building” ovvero della costruzione, dello sviluppo e della diffusione dell’Efficienza Energetica e del relativo “Saper Fare” o “Know How”.

La visione contemporanea del “Capacity Building” va oltre la percezione convenzionale della conoscenza e della formazione. La tematica centrale della gestione ambientale, che significa gestire i cambiamenti, risolvere i conflitti, gestire il pluralismo istituzionale, valorizzare il coordinamento, sviluppare la comunicazione e assicurare la condivisione dei dati e delle informazioni, richiede una visione ampia e olistica della capacità di progettare, costruire e gestire.

Nei laboratori del Politecnico di Milano, si insegna agli studenti dei corsi di Architettura, ormai da più di un decennio, a progettare edifici e complessi edilizi a energia quasi zero (nearly Zero Energy Buildings – nZEB).

Impresa abbastanza semplice con metodiche progettuali attente e meticolose: orientamento ottimale degli edifici, adozione di super-isolamenti, risoluzione quasi maniacale dei cosiddetti ponti termici, serramenti a taglio termico, ventilazione meccanica controllata con recuperatori di calore, pompe di calore reversibili inverno-estate, impianti fotovoltaici asserviti alle pompe di calore e a tutti gli altri usi elettrici e infine sistemi intelligenti di Building Automation. Il tutto con extra-costi e tempi di ritorno ragionevoli.

Come risultato, il mercato della nuova edilizia è ormai ampiamente predisposto e orientato verso queste metodiche e nuove tecnologie e gli edifici a basso consumo sono diventati una realtà consolidata nell’offerta immobiliare delle nuove costruzioni.

Purtroppo, negli edifici esistenti, e parliamo della quasi totalità del parco immobiliare esistente, data la loro scarsa qualità dal punto di vista energetico, le possibilità di miglioramento sono molto più problematiche e solo generose e consistenti incentivazioni statali, peraltro contestate politicamente, consentono di ridurre i consumi di energia nelle abitazioni e negli insediamenti industriali, spesso con risultati modesti.

La crisi energetica odierna sta mettendo in luce i limiti di un Mercato osannato come paradigma assoluto foriero di sicurezza e benessere.

Mercato che, se inizialmente ha consentito di realizzare un buon approvvigionamento di energia a basso costo, ha recentemente rivelato la sua faccia speculativa più spietata e ingorda, dimostrandosi, peraltro, impotente nel garantire la sicurezza energetica senza l’intervento massiccio dei Governi.

Forse nel passato è mancata un’adeguata comunicazione sulla simbiosi tra sicurezza energetica e riduzione delle emissioni, dove i due elementi sono le due facce della stessa medaglia, consentendo quella strategia a doppio dividendo, detta anche win-win, di cui molto poco si parla.

Fonti Rinnovabili e Sicurezza Energetica rappresentano la sintonia perfetta per la tutela dell’ambiente: si riducono le emissioni a effetto serra e ci si rende indipendenti dalle forze ostili del mercato che speculano sui combustibili fossili.

Questo non significa promuovere l’autarchia energetica, ma valorizzare le soluzioni decentrate sul territorio e sviluppare attività a valore aggiunto incrementando occupazione e reddito.

Negli ultimi vent’anni si è voluto purtroppo privilegiare il gas naturale per ridurre le emissioni climalteranti, anche sotto la spinta delle potenti lobby che tra l’altro, in Italia, garantiscono cospicui dividendi al suo azionista di riferimento, lo Stato. Addirittura, il gas naturale è stato inserito, assieme al nucleare, nella tassonomia europea, ovvero nella lista degli investimenti ritenuti sostenibili dal punto di vista ambientale.

L’Europa è stata ricoperta da migliaia di chilometri di gasdotti, parte dei quali giace ora inutilizzato sotto il mare del Nord. Non paghi, si vuole riesumare il gasdotto EastMed, concepito nel 2013, con una partecipazione al 50% di Edison. Costo stimato, nel 2013, di oltre 6 miliardi di euro e che dovrà collegare i campi estrattivi del Mediterraneo orientale all’Italia. I tempi di realizzazione non sono ancora certi. Sono già passati 9 anni dal suo concepimento e ce ne vorranno altrettanti per la sua messa in esercizio con costi almeno raddoppiati.

Ancora: per garantire la sicurezza energetica qualche demente ripropone il ritorno al nucleare con la costruzione di 6-7 centrali da collocare non si sa bene dove, in un paese il cui Governo non ha nemmeno il coraggio di svelare dove verranno confinate le scorie radioattive residue degli impianti in via di smantellamento da più di 40 anni.

Piccoli dettagli:

  • oltre il 60% dell’uranio per alimentare gli attuali impianti atomici è fornito dalla Russia e dai suoi più stretti alleati, Kazakistan e Uzbekistan: alla faccia della sicurezza negli approvvigionamenti;
  • per progettare, costruire e avviare una centrale nucleare occorrono 10-12 anni, sempre ammesso che si trovino comunità locali disposte ad accoglierle;
  • stando agli attuali impianti in costruzione, il costo di ogni singola centrale nucleare ormai raggiunge i 10 miliardi di euro; per 6 impianti servono almeno 60 miliardi;
  • secondo la Banca di investimento Lazard, il costo livellato senza sussidi dell’energia nucleare (LCE), si attesta intorno ai 167 €/MWh contro i 36-38 €/MWh del solare e dell’eolico.

Domanda: quanti impianti eolici, fotovoltaici, geotermici, di produzione di biogas e di biocombustibili si potrebbero realizzare con questa montagna di soldi per garantirci una vera sicurezza energetica, liberandoci dai costi altalenanti dei combustibili fossili?

Sicuramente abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale che faccia nascere un nuovo paradigma, un po’ più semplice e alla portata di tutti, che non ci faccia promesse di sviluppo regolarmente insostenibile e che, come diceva Massimo Troisi, non ci costringa a scegliere tra un giorno da leoni e cento da pecora, ma che ci garantisca un futuro “da orsacchiotti”, però sostenibile e duraturo.

Comunque bisogna affrettarsi. Come recitava Virgilio: “Sed fugit, interea fugit inreparabile tempus”. Il tempo passa inesorabilmente e ormai siamo molto prossimi al punto di non ritorno.


Ospitiamo volentieri questo articolo di Sergio Zabot originariamente pubblicato su www.officinadellambiente.com nel giugno del 2007 e che oggi, a distanza di 15 anni, l’autore ha deciso di riproporlo a QualEnergia.it con le dovute modifiche e integrazioni, proprio perché le vicende correnti lo rendono quanto mai attuale.

ADV
×