Le nomine Enel ed Eni, venti di una restaurazione energetica fossile

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Le nuove nomine allontanano l’Italia e le major nazionali dalla transizione energetica per un ritorno al passato.

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Ogni crisi è anche un’opportunità. E sembra proprio che la lobby del fossile, responsabile del ritardo nella transizione energetica e foriera di soluzioni fasulle che poco hanno a che fare con un’autentica decarbonizzazione, abbia usato al meglio la chance offerta dalla crisi energetica del 2021-22.

Un paradosso, perché proprio quelli che ci hanno legato mani e piedi alla dipendenza dai combustibili fossili, e in particolare dal gas russo, non solo hanno prodotto profitti straordinari, ma sono risorti come i salvatori della patria, soprattutto in Italia.

Questo è avvenuto dopo un decennio in cui l’oil&gas ha perso terreno e faticato a fronte di una tendenza all’uscita dal fossile che si è fatta strada, seppur lentamente. Si pensi solo che l’Eni ha perso un terzo della sua capitalizzazione in borsa, mentre Enel ha avuto un boom trainato proprio dalla sua strategia di diversificazione del business.

In questo contesto, condito dall’incompetenza del nuovo governo in materia energetica, tanto che per navigare nella crisi si è affidato ancora più del solito ai vertici dell’Eni, sono avvenute le nomine nelle principali partecipate energetiche del Paese, ossia proprio Eni ed Enel.

A cavallo di Pasqua, dopo un negoziato sofferto, il governo ha trovato la quadra su quattro nomi, che la dicono tutta sul prossimo futuro energetico nazionale che ci attende.

La conferma di Claudio Descalzi come ad dell’Eni era nell’aria, anticipata dalla narrazione patriottica del nuovo “piano Mattei”.

Ma la stretta su Eni si è chiusa con la nomina alla presidenza della società del generale Giuseppe Zafarana, capo della Guardia di Finanza. Una scelta alquanto inusuale, ma che conferma il legame sempre più stretto tra la macchina dell’Eni e l’apparato di sicurezza dello Stato.

Insomma, la dimensione politico-sicuritaria ha avuto priorità rispetto a quella energetico-ambientale. Una decisione che sembra quasi una pietra tombale sulla stagione delle grandi inchieste sui presunti illeciti economico-finanziari che hanno segnato il cane a sei zampe negli ultimi due decenni.

Le sorprese più grosse sono alla fine avvenute però sul fronte dell’Enel. Il papabile Stefano Donnarumma, in uscita da Terna, è stato messo da parte e il sempre verde Flavio Cattaneo alla fine è stato scelto come nuovo ad. Cattaneo ha avuto solo un passaggio fugace in Terna, e di sicuro il campo energetico non è il suo forte.

Ma, ancora più rilevante, sopra di lui troneggerà la figura di Paolo Scaroni, ex ad di Enel e Eni, tornato in auge con il governo di destra. Scaroni è stato il dominus delle relazioni con la Russia negli anni 2000 e delle politiche energetiche del Paese, creando quella dipendenza energetica che oggi soffriamo.

Importante anche ricordare che, proprio quando era presidente dell’Enel, Scaroni venne condannato in primo grado per il delitto di disastro, poi dichiarato prescritto nel 2018 dalla Corte di Cassazione, ma con espresso accertamento dell’illecito penale a suo carico anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, per la vicenda delle emissioni della centrale ad olio combustibile di Porto Tolle. Per la condanna in primo grado proprio su questo caso, nel 2014 Scaroni non venne confermato ai vertici di Eni dall’allora governo Renzi.

Oltre alle assoluzioni di Descalzi e le prescrizioni di Scaroni, vi è un significato più profondo di quella che chiaramente emerge come una svolta ancora più reazionaria sul fronte energetico del governo italiano.

Il piano Mattei, di cui ancora non c’è una carta, vuol dire sancire il presunto ruolo di hub del gas dell’Italia nei prossimi decenni, in barba a qualunque decarbonizzazione di cui Eni riempie le sue relazioni annuali.

Scaroni all’Enel poi potrebbe significare non solo una revisione dell’uscita dalla generazione elettrica dai fossili entro il 2040, su cui l’ad uscente Francesco Starace si era impegnato, ma probabilmente una nuova apertura al mito del nucleare.

E non solo per la fantasmagorica fusione brandita da Descalzi come un possibile – e alquanto discutibile – futuro per l’Eni, ma anche la vecchia fissione degli impianti di quarta generazione. Negli ultimi anni Scaroni è sempre stato chiaro che avremmo bisogno di ogni tipo di energia: fossile, nucleare e rinnovabile. Meglio se centralizzata e gestita dai soliti noti.

È un precedente quasi unico la risposta critica che si è avuta nei giorni scorsi da parte di grandi investitori internazionali che avevano puntato ampiamente sulla strategia dell’Enel centrata sulle fonti rinnovabili, la digitalizzazione e la creazione di un nuovo business di servizi.

Nonostante le controversie presenti in America Latina, anche riguardo ai mega-progetti di rinnovabili, e la lenta chiusura delle centrali al carbone con paventate conversioni a gas in Italia, fino a qualche giorno fa gli investitori internazionali consideravano Enel un “campione” della transizione.

Con i nuovi vertici in arrivo e l’assenza di un piano di autentica transizione del governo, gli investitori per la prima volta presentano una loro lista, snobbando quella dei parrocchiali investitori privati italiani radunati in Assogestioni.

Peccato che, per il quarto anno di fila, anche nel 2023 le assemblee degli azionisti delle aziende quotate si terranno sorprendentemente ancora a porte chiuse in nome dell’emergenza Covid, dichiarata però finita da tempo dal governo italiano. Sarebbe stato bello questa volta vedere il dibattito in sala a Viale Regina Margherita tra investitori e management della società.

Le nuove nomine allontanano l’Italia e le major nazionali dalla transizione, riaprendo la porta sul passato in nome del nuovo mantra della neutralità tecnologica, che di fatto vuol dire business as usual fossile finché si potrà.

Finita la cornucopia degli extra profitti, soprattutto per quel che riguarda Eni, vedremo se gli investitori internazionali diventeranno davvero più interventisti sulla gestione dei due “campioni” italiani. Nel frattempo l’interesse nazionale fossile l’ha spuntata.

La cartina di tornasole sarà nei prossimi mesi la definizione della nuova bozza del Piano nazionale per l’energia e il clima da presentare a Bruxelles. Il governo si affiderà in toto al quartetto fossile appena nominato, ma resta da vedere se altre voci non allineate nell’industria italiana finalmente romperanno i ranghi, interesse nazionale o no che tenga.

L’autore,  Antonio Tricarico, è campaigner finanza pubblica e multinazionali di ReCommon.

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