L’Italia può fare da battistrada dell’industria dell’eolico offshore galleggiante

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Le potenzialità dell'eolico galleggiante per l'Italia sono enormi anche per gli sviluppi legati all'indotto. Ne parliamo con Luigi Severini, l'ingegnere che ha progettato il primo impianto nazionale a Taranto, e con Alex Sorokin, esperto energetico.

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Dall’industria fotovoltaica fuggita in Oriente, fino alle auto elettriche ignorate dal maggior produttore automobilistico nazionale: di treni per agganciare la transizione energetica a un rilancio e ammodernamento della produzione industriali, l’Italia ne ha persi un bel po’.

Adesso un altro convoglio si sta avvicinando alla “Stazione Italia”, ma riusciremo a saltarci sopra?

Il treno si chiama eolico offshore galleggiante, una tecnologia di cui si parla ormai da molti anni, ma che nessuna nazione ha ancora sviluppato, preferendo, finché c’è spazio, continuare a costruire turbine piantate in terra o sul fondo di mari profondi meno di 30 metri.

Nei nostri mari l’eolico offshore tradizionale non lo si può installare, perché fondali così bassi, accoppiati a venti forti e costanti, sono presenti quasi sempre solo a ridosso delle coste, e gli impianti sarebbero troppo invasivi: ci servono turbine montate sopra grossi galleggianti ancorati sul fondo, da mettere molto al largo.

Che lo si possa fare lo ha dimostrato dal 2017 la norvegese Statoil, che ha installato di fronte alla Scozia sei Hywind, turbine da 5 MW montate su lunghi cilindri immersi, che da allora funzionano con un’altissima produttività, resistendo a furiose tempeste. E ci sono altri prototipi in fase di test in giro per il mondo, come quelli dell’Università del Maine.

Eppure, adesso, l’Italia potrebbe essere la prima nazione a utilizzare in modo massiccio questa tecnologia, diventando anche un centro di produzione e sviluppo di macchine per fondali profondi, da esportare nei tanti paesi, dal Giappone alle Hawaii, dalla Grecia alla California, con gli stessi nostri problemi geografici.

Sono infatti state depositate al ministero dell’Ambiente due domande per la costruzione di impianti eolici galleggianti, uno nel Canale di Sicilia, fra Pantelleria e Lampedusa, a 35 km dalla costa più vicina, e l’altro a 32 km al largo di Buggerru, sulla costa sudoccidentale sarda: il primo dovrebbe avere una potenza di 250 MW con 25 turbine Siemens da 10 MW l’una, il secondo sarebbe composto da 42 turbine GE da 12 MW l’una per 504 MW di potenza complessiva.

Si stima che insieme i due impianti produrrebbero circa 2,7 TWh l’anno, aumentando del 16% la produzione eolica annuale italiana. Queste turbine sarebbero montate su un galleggiante a tetraedro, stabilizzato da una zavorra triangolare, ideato dalla società danese Stiesdal.

 Per rassicurare gli scettici sul fatto che sia una cosa seria, diciamo subito che dietro a questi due giganteschi progetti, c’è l’ingegnere Luigi Severini, l’uomo che “ha fatto l’impresa”: riuscire cioè a progettare, far approvare e ora costruire il primo impianto eolico offshore d’Italia (e del Mediterraneo), quello di Taranto.

«In realtà l’impianto di Taranto non è stato ancora completato. Dopo i noti problemi nati da ricorsi che ci hanno fatto perdere anni preziosi e il fallimento del fornitore tedesco delle turbine Senvion, abbiamo dovuto trovare una nuova turbina e adeguare il progetto ad essa. Adesso contiamo di riuscire a produrre la prima elettricità entro il 2021».

Ecco, proprio considerate tutte le difficoltà incontrate per installare appena 30 MW di eolico offshore davanti a una acciaieria, questo “rilancio” di centinaia di MW in mare aperto sembra un po’ il solito annuncio velleitario di megaimpianti che non vedremo mai…

«A finanziare questo progetto sarà la società danese Copenhagen Offshore Partners, una delle maggiori al mondo nello sviluppo di parchi eolici offshore, che intende investire in questi due impianti 2,1 miliardi di euro. Loro ci credono».

Come ha fatto a convincerli?

«Con le società 7SEASmed e ICHNUSA Wind Power, abbiamo prodotto business plan credibili e spiegato che l’Italia è un paese che ha grandi capacità industriali, infrastrutture adatte e che nei prossimi anni dovrà installare molti GW di eolico per rispettare gli impegni sul clima, ma non ha lo spazio a terra o in mari bassi per farlo. L’unica strada realistica per noi è installare impianti eolici galleggianti in alto mare, e, se ci riusciremo qui, poi potremo esportare la tecnologia in tutto il mondo. Dopo una accurata verifica dei progetti ci hanno dato fiducia».

Però lei sa meglio di chiunque altro quanto sia difficile fare eolico offshore in questo paese. Non teme ambientalisti, sovraintendenze e comitati del no, scatenati contro le sue turbine?

«Guardi, ci siamo riletti i 25 progetti di eolico offshore respinti in Italia, prima che approvassero quello di Taranto. Abbiamo capito che il rifiuto di tali impianti, molte volte giustificato, si è basato su tre ragioni principali: interferenza con paesaggio, ambiente e navigazione. Per cui questi due nuovi progetti li abbiamo tarati proprio per evitare queste tre obiezioni. Li metteremo così al largo che per vederli da terra servirà un binocolo, in zone di scarso traffico navale, ancorandoli a fondali di 250-300 metri, dove la luce non arriva e la vita vegetale sui fondali è inesistente».

In realtà un primo parere del WWF sull’impianto siciliano non sembra proprio entusiasta: secondo loro potrebbe danneggiare gli uccelli migratori.

«Abbiamo preso in considerazione anche quell’aspetto, e comunque gli ambientalisti dovrebbero applicare un metro di giudizio più completo, considerando il contributo che questo tipo di impianti fornirà al contenimento della principale minaccia per la Natura: il climate change».

Comunque, sembra che l’idea sia quella di evitare ad ogni costo i ritardi di Taranto.

«Ovviamente, ma questa volta è ancora più importante, perché si tratta di tecnologie nuove e costose e la remunerazione in Italia per l’elettricità da offshore, 215 €/MWh, è giusto sufficiente a rientrare dell’investimento. Siamo sul filo e dobbiamo procedere senza intoppi. Per capirci, in Francia danno 240 €/MWh all’eolico offshore».

Perché non avete costruito lì, allora?

«Diciamo che entrare nel mercato di quel paese non è facilissimo. Loro stanno lavorando sul galleggiante, ma attraverso progetti e industrie francesi».

Ma se i margini sono così ristretti, perché avete scelto la tecnologia della Stiesdal, che non è mai stata testata in mare?

«È stata abbondantemente testata in vasca navale, simulando condizioni anche molto peggiori di quelle del Mediterraneo, con ottimi risultati e già oggi è pronto un primo prototipo per una turbina da 3,6 MW. Quella tecnologia ha comunque un grande vantaggio sulle altre: i galleggianti sono costituiti con le stesse strutture delle torri eoliche e si possono assemblare con le turbine in un porto, per poi rimorchiarli al largo, evitando costosi e rischiosi lavori di montaggio in mare».

Questo però richiederà di avere delle basi a terra, dove effettuare il montaggio.

«Certo, e ciò crea una enorme opportunità per l’Italia: saremo i primi a valorizzare porti, bacini e industrie dedicati all’offshore galleggiante, acquisendo un know-how unico, da spendere poi nel mondo. Abbiamo già individuato porti adatti in Sicilia e Sardegna».

E a questo, dite, si aggiungerebbe la richiesta di acciaio che potrebbe arrivare all’Ilva di Taranto per la costruzione delle torri e dei galleggianti.

«Avremo bisogno di circa 270mila tonnellate proprio del tipo di prodotti in acciaio di alta qualità che lo stabilimento tarantino è in grado di offrire: sarà una commessa preziosa dopo il suo rilancio in chiave green. E non c’è solo l’acciaio. Il nostro progetto apre un’altra opportunità industriale: le grandi turbine offshore sono oggi progettate per i mari del nord, quindi per venti medi di 10-12 metri al secondo, contro i 6-8 del Mediterraneo. Questo ci obbliga a usare macchine sovradimensionate, più costose e meno efficienti di quanto sarebbero modelli “mediterranei”. La nostra industria potrebbe produrre turbine tarate per i nostri e altri mari nel mondo con venti simili».

Come sta andando l’iter autorizzativo?

«Abbiamo presentato la richiesta di Valutazione di Impatto Ambientale, e attendiamo dai ministeri le prime risposte. C’è stato qualche mese di ritardo anche per il covid-19, ma ora contiamo di ricevere la risposta a breve, le prime interlocuzioni con i ministeri sono andate molto bene, c’è comprensione e interesse per questo nuovo progetto. Superata la Via, le cose potrebbero procedere spedite ed entro due o tre anni potremmo cominciare a vedere le prime turbine galleggiare nel Mediterraneo. Evidentemente Taranto, nonostante i tanti intoppi, ha rotto il ghiaccio che bloccava l’offshore in Italia e tanti ne comprendono oggi le potenzialità».

Vedremo se sarà così. Ma siccome è troppo facile chiedere all’oste se il vino è buono, abbiano sentito un esperto indipendente per un giudizio su questa iniziativa, l’ingegner Alex Sorokin, che da molti anni ha la scomoda parte del “profeta inascoltato”, colui cioè che indica nell’eolico offshore galleggiante una scelta obbligata per il nostro paese, ma finora senza troppo successo.

Allora ingegner Sorokin, qualcuno finalmente l’ha ascoltata?

«Più che ascoltare me, qualcuno ha ascoltato il buon senso: nella condizione geografica italiana, quella è l’unica via percorribile per un eolico massivo. E anche per la nostra industria, che ha bisogno di rilanciare la siderurgia e ha grande esperienza nella cantieristica e nelle piattaforme offshore; è l’uovo di Colombo».

Ma questi progetti le sembrano realistici? Non peccano un po’ di megalomania?

«Sono fatti molto bene, con grande professionalità. Le loro grandi dimensioni non devono sorprendere: l’unico modo per rendere profittevoli iniziative così innovative, è puntare alle economie di scala e quindi ai grandi numeri. Il solo punto su cui ho qualche dubbio è il sistema di galleggiamento, molto interessante e innovativo, ma mai testato in grande scala e in mare aperto, ma immagino, vista l’esperienza nell’offshore dei finanziatori danesi, che chi lo produce abbia ben dimostrato la sua affidabilità».

Ma veramente l’ingegner Severini riuscirà a farseli approvare in tempi ragionevoli?

«La burocrazia italiana è forse la maggiore incognita di questa impresa, ma visti gli impegni climatici presi in sede europea, considerato che ormai l’eolico offshore dilaga nel mondo, dimostrandosi affidabile e molto produttivo, viste le enormi ricadute positive per il sistema industriale del nostro paese che arriveranno da questi due impianti, e, non ultimo, considerata anche la fiducia che i danesi sembrano riporre in noi, voglio sperare che si farà veramente di tutto per agevolarne l’iter. Anche al farsi male da soli c’è un limite, persino in Italia».

Forse questo treno che corre sull’acqua, non ce lo faremo scappare.

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