La teoria del gioco per capire la transizione energetica: il caso della Sardegna

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Quali sono le partite che si stanno giocando nel processo di transizione energetica? Chi sono i giocatori? E qual è la posta in gioco? Una ricerca sociologica sulla transizione energetica della Sardegna.

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La Regione Sardegna ha varato il proprio piano energetico regionale nel 2015 con ambiziosi obiettivi in termini di riduzione delle emissioni di CO2 e crescita della produzione di energia da FER (rispettivamente 50% di riduzione entro il 2030 rispetto al 1990 e aumento di 3 TWh rispetto ai valori del 2013). Lo stesso Piano prevede l’utilizzo del gas naturale come fonte per la transizione energetica.

Ma il Comitato “No Metano Sardegna”, che ha recentemente lanciato la sottoscrizione di una petizione contro la metanizzazione dell’isola, si trova a fianco della Regione autonoma nel contrasto ad alcuni progetti per la produzione di energia da rinnovabili.

Gli impianti a concentrazione solare (CSP) osteggiati sono stati proposti nei comuni rurali di Gonnosfanadiga-Guspini e Villasor-Decimoputzu e hanno ricevuto parere negativo dalla Regione Sardegna a causa della massiccia occupazione di terreni agricoli (approssimativamente 250 ettari per ciascuno impianto), deturpazione del paesaggio e malcontento della popolazione locale. L’obiettivo condiviso è favorire impianti di produzione più piccoli e a generazione distribuita.

Adottando una chiave di lettura piuttosto originale, Giorgio Osti professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Trieste, co-curatore insieme a Luigi Pellizzoni del volume “Energia e innovazione tra flussi globali e circuiti locali” (vedi sotto), ha compiuto una disamina del processo di transizione energetica in corso in Sardegna.

L’ipotesi di ricerca è che una transizione rapida, efficace e sostenibile emerga nelle isole se una serie di ‘giochi’ energetici sono visibili, se stimolano la partecipazione delle persone e se corrispondono agli obbiettivi tipici degli isolani, che sono indipendenza politica, sviluppo economico e identità culturale. Queste mire possono essere perfettamente tradotte in termini energetici: autosufficienza, energia come fonte di benessere e identificazione territoriale.

La premessa di partenza di Osti, che “la velocità e l’originalità della transizione energetica sia maggiore quando si svolgono una serie di giochi pubblici, simbolici e ripetuti” ha trovato qualche riscontro empirico nella ricerca sulla Sardegna.

“La transizione energetica della Sardegna – scrive Osti – è lenta e scarsamente innovativa per l’insufficiente capacità della dirigenza locale di formulare e organizzare giochi di alto livello. Si può imputare questo alla forte asimmetria con giocatori globali esterni e alla impreparazione delle squadre locali, non ultime quelle del privato sociale, non ancora allenate per competere. Non è escluso però, che una volta chiarite alcune poste in gioco, possa avvenire nell’isola una brusca accelerazione”.

Va precisato che non si tratta di teoria dei giochi, applicata prevalentemente in economia e riguardante attori razionali, ma di teoria del giocare sviluppata in senso storico-antropologico. Inoltre, le forme e le procedure di gioco sono intese come metafore del reale funzionamento dei sistemi sociali e tecnici.

Tre le “partite” che si stanno giocando in Sardegna, che corrispondono agli obiettivi e ai termini energetici individuati da Osti, la prima, tra rinnovabili e fonti fossili, vede da un lato la Regione Sardegna e dall’altro l’industria delle rinnovabili.

La seconda, che riguarda le tecnologie per la transizione, si gioca tra l’evoluzione delle reti (smart grid) e i sistemi di accumulo (storage). La terza partita, infine, riguarda la sovranità energetica, laddove lo sviluppo delle rinnovabili sull’isola è considerato, come per il metano, al pari di una servitù energetica.

Abbiamo chiesto a Giorgio Osti di chiarirci come ha spiegato alcune contraddizioni con la teoria del gioco e come si può spiegare la scelta di regione Sardegna di utilizzare il metano come fonte per la transizione energetica dell’isola e approvare la costruzione di una nuova centrale a carbone, mentre persegue obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni e produzione da rinnovabili.

«Questa contraddizione viene giustificata, mi pare, in termini di spiegamento temporale delle fonti. Si immagina un periodo intermedio dominato dal gas naturale e una fase finale di completo approvvigionamento da fonti rinnovabili. Ciò viene a sua volta giustificato sostenendo che non vi sono le condizioni tecniche ed economiche per un passaggio diretto alle rinnovabili. La Sardegna in quanto isola ha un elevato fabbisogno energetico per i trasporti con il continente e, pertanto, secondo gli estensori del Piano regionale, è impensabile disporre di navi e aerei alimentati con l’elettricità proveniente da pale eoliche, pannelli fotovoltaici e altre fonti minori , come le onde del mare. La grid parity si può forse raggiungere per i consumi a bassa intensità come quelli domestici, ma per industria pesante e trasporti servono ancora fonti ad altissima concentrazione che solo le fossili possono garantire».

Sembra una chiara contraddizione?

«Per essere compresa, l’incongruenza della Regione Sardegna va declinata su almeno tre piani. Quello della conoscenza: è possibile o meno prefigurare un passaggio diretto alle rinnovabili in una grande isola come sta avvenendo in piccole isole e a quello che mi si dice alla Hawaii? Pare di sì, ma la dirigenza sarda, e anche quella nazionale, che ha espressamente approvato la metanizzazione dell’isola nella Strategia Energetica Nazionale, dice che non è immaginabile. Si gioca, a proposito di metafora ludica, su come è organizzabile il futuro: gli strumenti sono gli scenari, la cui capacità predittiva è strettamente legata a eventi del passato, proiezioni sul futuro e preferenze dei ricercatori. Forse uno scenario con passaggio totale alle fonti rinnovabili poteva essere disegnato. Magari solo per il gusto di tracciare un’utopia, a volte più dei meri calcoli capace di mobilitare le persone».

Il secondo piano di analisi?

«Questo riguarda le risorse economiche. Di quante e quali risorse finanziarie ha bisogno la metanizzazione dell’isola? Quante sono quelle investibili immediatamente sulle fonti rinnovabili? Paradossalmente, sono molto più precise quelle sul secondo campo di investimento. Il fotovoltaico è ormai una tecnologia così matura che se ne possono stimare costi e benefici con elevata precisione sia in termini di rendimenti che di durata. Mentre la metanizzazione ha costi e progetti di realizzazione ancora molto aleatori».

E investimenti ingenti…

«È evidente che massicci investimenti pubblici o di multinazionali del gas potrebbero sopperire a questa carenza previsionale, ma anche qui, e questo è il terzo piano di analisi, regna un’elevata incertezza. Forse ENI nel giro di una decina d’anni riuscirebbe a completare la rete e i porti per le navi metaniere ma chi da’ garanzie al colosso energetico circa il ritorno degli investimenti? Solo il governo nazionale lo può fare. E quindi tutto è rimandato a scelte politiche ad altissimo impatto finanziario».

Chi sta disputando le partite?  

«Chi sta giocando al risiko energetico in Sardegna sono soprattutto Enel e Terna. La prima gestisce importanti centrali, la seconda oltre alla rete ad alto voltaggio, i due elettrodotti sottomarini e un grosso polo multitecnologico per l’accumulo di energia a Codrongianos. Enel sta facendo grossi investimenti sui sistemi di accumulo in altre isole, mentre in Sardegna, che pure produce un surplus di energia elettrica, sembra aver lasciato il campo a Terna. Forse è una divisione spaziale della tecnologia. Tolto questo eventuale gioco interno al vettore elettrico, di cui è difficilissimo avere informazioni certe, la vera partita è probabilmente fra un’ulteriore elettrificazione e la menzionata metanizzazione. In tal senso Eni è il giocatore più in vista, ma non si possono escludere altre società energetiche, dato che tutte sono multinazionali estremamente mobili. Queste però sono abituate a muoversi con ampi e duraturi accordi nazionali, che permettano loro il rientro degli investimenti».

Scendendo ad una scala più bassa chi partecipa alla partita?

«Un’altra partita riguarda le tecnologie per i sistemi di accumulo e le smart grid locali. Qui ci sono altri attori, in primis le industrie che promuovono batterie ad uso domestico e software. Il campo da gioco è solo un po’ più affollato, essendo la soglia di entrata più bassa e potendo vendere il prodotto a singoli utenti. Ma già la smart grid prevede di avere un cliente che possieda la rete elettrica. Infatti la regione Sardegna ha promosso una sperimentazione in due piccoli paesi di campagna i cui comuni possiedono la rete. È un aspetto interessante e raro di smart village. I giocatori sono dunque amministrazioni locali, imprese di media grandezza capaci di approntare software e hardware per stoccare e distribuire energia, agenzie R&S capaci di fare l’assistenza tecnica».

Che ruolo giocano i cittadini e i movimenti ambientalisti?

«Nella ricerca, da bravi sociologi, si è imputato un certo ruolo anche alla società civile formata, come è tradizione, da movimenti di opinione, associazioni culturali, imprese sociali. Un importante giocatore è il movimento per l’indipendenza e l’identità sarda che in campo energetico appare piuttosto confuso e incapace di sostenere fattivamente investimenti nelle fonti rinnovabili. L’identità sarda, nonché il carattere pugnace degli abitanti dell’isola, non ha ‘sfornato’ giocatori in grado di avviare né una massiccia campagna di installazione di micro-impianti, come il fotovoltaico, né una massiccia adesione all’azionariato energetico, così come è successo per l’eolico in molta parte del nord Europa. Molto si spiega con il basso reddito medio della popolazione, ma non del tutto. Sta di fatto che l’isola, come buona parte del Mezzogiorno, ha lasciato campo libero a investimenti esterni o interni poco interessati alle ricadute locali della produzione sostenibile di energia».

Qual è la posta in gioco?

«La posta in gioco nella transizione energetica sarda riguarda in soprattutto il bilanciamento fra autosufficienza e interdipendenza con il continente. Come detto, c’è già un elevato interscambio di energia elettrica grazie ai due cavi sottomarini. Ciò coinvolge anche la Corsica. Le isole dovrebbero privilegiare il primo polo, l’autosufficienza relativa, per ragioni di costo e di opportunità politica, ma non è scontato. Infatti per la Sardegna si potrebbe prefigurare un terzo elettrodotto sottomarino in grado di accentuare l’interdipendenza e l’elettrificazione dell’isola».

Resta il fatto che la potenzialità delle rinnovabili nell’isola è notevole.

«Infatti è la regione più ventosa d’Italia e seconda solo alla Sicilia per radiazione solare. La posta in gioco è quindi molto ampia ma anche difficile da delimitare. Dipende da scelte strategiche di attori per lo meno nazionali. Così come l’Italia è una sorta di hub del gas, la Sardegna potrebbe diventare un hub del solare. L’interdipendenza però gioca contro l’ideale dell’autosufficienza energetica. Questo è un dilemma che riguarda tutti i sistemi energetici: si potenziano i collegamenti esterni o le fonti locali? Una risposta che forse concilia globalisti e sovranisti, per usare una terminologia ad effetto, sta nei sistemi di accumulo multiscala che per ora in Sardegna sono sviluppati ancora a livello sperimentale se non addirittura solo nelle parole di amministratori pubblici, tecnici e investitori. Tutti a lodare queste tecnologie complementari ma davvero pochi ad agire speditamente».

Il capitolo integrale sulla Sardegna e il volume Energia e innovazione tra flussi globali e circuiti locali, Edizioni Università di Trieste (2018) possono essere scaricati gratuitamente.

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