Fotoni avanti tutta: la “svolta” solare che si preannuncia in Italia

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Per la transizione energetica in Italia servono tutte le tipologie di fotovoltaico: su tetti, capannoni, a terra e agrovoltaico. Intervista ad Attilio Piattelli, vicepresidente di Italia Solare.

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L’articolo è stato pubblicato sul n.1/2022 della rivista bimestrale QualEnergia

Attilio Piattelli, nel settore energia dal 1993 e nel fotovoltaico dal 2005, è vicepresidente di Italia Solare, l’associazione che riunisce le realtà italiane del fotovoltaico, coordinatore per l’associazione del FV per l’industria ed è presidente di SunCity Group e amministratore di SunCity srl.

A lui abbiamo chiesto di illustrarci la “svolta” fotovoltaica che si preannuncia in Italia.

Quali sono le prospettive massime e quelle minime del fotovoltaico in Italia?

«RSE sostiene che servano almeno 200 GW di FV al 2050 noi diciamo che al 2030 ne servono alme-no 50 o più, se si considera la revisione del PNIEC per adeguarlo al “Fit for 55”. Le potenzialità dei tetti sono stimate a circa 60-80 GW e quelle degli impianti a terra, se osserviamo lo sviluppo dell’agrovoltaico sia di medie sia di grandi dimensioni, potremmo dire che siano quasi illimitate, rispetto alle nostre esigenze. Basti pensare che la Germania ha da poco annunciato un programma di realizzazioni di impianti agroFv di 200 GW al 2030.

Il limite è esclusivamente legato alla semplificazione degli iter autorizzativi per gli impianti a terra e agli stimoli, come fondi di garanzia e credito d’imposta, per quelli a tetto. Teniamo in conto che oggi abbiamo una situazione di utilizzo dell’energia da fonte fotovoltaica molto favorevole. La grid parity, con dei PPA a dieci anni è raggiungibile in quasi tutte le zone d’Italia, cosa che rende il fotovoltaico installabile praticamente su tutto il territorio nazionale».

Quale tipo di fotovoltaico serve veramente all’Italia oggi?

«Serve tutto perché per il raggiungimento di obiettivi così sfidanti è necessaria una diversificazione delle soluzioni: impianti domestici e su coperture industriali per massimizzare l’autoconsumo, impianti in prossimità dei centri di consumo, sia a tetto sia a terra, per ottimizzare l’uso delle reti e anche impianti agrofotovoltaici per poter aumentare considerevolmente le possibilità d’installazione sfruttando una interessantissima opportunità di sinergia con il mondo agricolo che porterebbe sicuri benefici sia alla diffusione delle rinnovabili sia al mondo agricolo stesso, che sarebbe chiamato a rinnovarsi.

Sull’agrofotovoltaico bisogna sottolineare che gli impianti di dimensione media, tra i 500 kW e pochi MW, se realizzati direttamente dalle aziende agricole, sono l’ideale per l’integrazione del reddito agricolo e le tecnologie utilizzate possono essere di supporto per il monitoraggio delle colture. Il mondo agricolo, quindi, riceverebbe ottimi vantaggi da ciò».

In Italia abbiamo degli scogli autorizzativi con-solidati che bloccano le rinnovabili da anni. Di cosa si tratta e come è possibile superare questo impasse?

«Oggi lo scoglio autorizzativo è rappresentato dall’assenza dell’identificazione delle aree idonee e quindi dalla discrezionalità delle regioni sulla possibilità o meno di concedere le autorizzazioni. È necessario accelerare sulla selezione delle aree idonee, sull’introduzione di semplificazioni concrete per impianti in prossimità di aree di consumo, possibilità di realizzazione d’impianti agroFV anche al di fuori delle aree idonee, nel rispetto di determinati criteri di tutela delle attività agricole, mentre per quel che riguarda gli impianti su copertura finalmente con il recentissimo DL Energia si è introdotta, a esclusione di pochi casi specifici, un vera semplificazione per tutti gli impianti realizzati su coperture che vengono assimilati a interventi di manutenzione ordinaria e sotto i 200 kW ci sarà un’ulteriore semplificazione con un semplice modello unico».

Parte del valore della filiera FV è all’estero. È possibile riportare qualcosa in Italia?

«Credo sia un po’ difficile riportare in Italia le produzioni di moduli ma con i recenti stravolgimenti internazionali potrebbe divenire fondamentale avere filiere interne per esempio, sul breve, potremmo cercare di non farci scappare l’opportunità di avere fabbriche di produzione dei sistemi di accumulo. Molti paesi europei si stanno già muovendo e noi, come al solito, siamo un po’ indietro. In ogni caso, con la discesa del prezzo dei moduli, il valore della filiera che è italiano è meno peggio di quello che si può immaginare perché può tranquillamente arrivare al 60-65%.

Tornando alla filiera interna di moduli e sistemi di accumulo, servono politiche industriali mirate, parliamo di impianti da minimo 2 GW di produzione annua per i moduli, partendo dalla barra di silicio di grado solare, quindi si tratta di investimenti tra gli 800 e i 1000 milioni euro. Si tratta di un problema per un tessuto industriale come il nostro che è fatto di Pmi a meno che non ci si inserisca su politiche industriali pianificate a livello istituzionale che attualmente mancano».

Comunità energetiche e agrivoltaico. Che prospettive hanno e in quale quadro?

«Con il recepimento della REDII e l’estensione geografica delle comunità energetiche alla cabina primaria AT/MT e l’innalzamento della potenza incentivabile per singolo impianto a 1 MW le potenzialità delle comunità energetiche possono divenire enormi e possono anche contribuire a rendere più accettabile la presenza degli impianti a fonti rinnovabili sul territorio. Vanno però risolte alcune problematiche di finanziabilità delle comunità energetiche e sarebbe opportuna l’introduzione di fondi di garanzia pubblici a tale scopo.

Per quel che riguarda l’agrovoltaico, se si riescono a superare le barriere ideologiche e si affronta la problematica in modo sereno e costruttivo, con tavoli dedicati tra istituzioni e associazioni, sia del mondo agricolo, sia di quello fotovoltaico, l’opportunità è enorme con benefici reciproci per FV e agricoltura. Infatti, se consideriamo che per il raggiungimento degli obiettivi al 2030 (ipotizzati in 50 GW e nell’ipotesi di realizzare un 30% a tetto e un 70% a terra) servirebbero al massimo 60.000-70.000 ha, cioè meno dello 0,4% della superficie agricola totale. Il potenziale è enorme. Bisogna solo capire che l’agrofotovoltaico non è un problema, ma una reale opportunità per l’agricoltura e la lotta ai cambiamenti climatici».

Come immagini il fotovoltaico al 2030 in Italia?

«Più che il fotovoltaico vorrei immaginare al 2030 di essere pienamente avviati verso una bella transizione energetica. Oggi si sente spesso parlare di ‘lacrime e sangue’ quando si fa riferimento alla transizione energetica, in realtà proprio in questo periodo ci stiamo accorgendo che i veri problemi dei costi eccessivi dell’energia sono strettamente legati alle fossili, i cui prezzi sono soggetti a varia-zioni improvvise non per motivi tecnici, ma per aspetti di carattere esclusivamente geopolitico e quindi imprevedibili nel tempo e in più rappresentano un costo d’importazione non eliminabile.

Al contrario le fonti rinnovabili possono rendere totalmente nazionale la produzione e soprattutto la possono garantire a prezzi stabili e più bassi. E poi, ma perché dovremmo aver paura di una transizione che ci permetterebbe di contrastare i cambiamenti climatici, il maggior problema che l’umanità si trovi ad affrontare, che permetterebbe la produzione locale e distribuita, distribuendo la ricchezza e non concentrandola in pochi soggetti? E oltre a ciò la transazione energetica annullerebbe totalmente le emissioni inquinati che in pochi sanno essere la causa di tante morti premature ogni anno: 400mila annue per l’Europa e tra 80mila e 90mila per l’Italia, come stima l’Agenzia Ambientale Europea».

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