Nel 2015, secondo il Rapporto Oxfam, “Confronting Carbon Inequality” risultava che:
- il 10% più ricco della popolazione mondiale (circa 630 milioni) aveva emesso il 52% dei gas serra e già consumato il 31% del budget carbonico disponibile per non superare 1,5 °C;
- il 40% della popolazione mondiale (circa 2,52 mld), classificabile come ceto intermedio, aveva emesso il 41% dei gas serra e consumato il 25% del budget carbonico;
- la parte più povera, pari a metà della popolazione mondiale (circa 3,15 miliardi), era responsabile solo del 7% delle emissioni e del 4% del budget carbonico.
Se nel 2015 la metà più povera avesse avuto il reddito del ceto intermedio, sei anni fa avremmo già consumato l’87% del budget carbonico disponibile per non superare 1,5 °C. Tenuto conto che, secondo il Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu, la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a 9,7 miliardi nel 2050 – crescita concentrata nei Paesi più poveri – difficilmente le più radicali tecnologie, applicate nel modo più estensivo, potrebbero da sole garantire uno sviluppo inclusivo e in grado di non superare il tetto del budget carbonico.
Eppure, questo dato di fatto non ottiene l’attenzione che meriterebbe, confermando la freudiana tendenza a rimuovere dalla coscienza ciò che consideriamo inaccettabile e intollerabile.
Un problema rimosso
Tra gli studi più recenti, solo lo scenario “Net Zero by 2050” dell’Iea affronta il problema, collocando i “cambiamenti comportamentali” tra i pilastri della decarbonizzazione, insieme a efficienza energetica, elettrificazione, rinnovabili, idrogeno, bioenergie e Ccus, pur consapevole che «molti cambiamenti comportamentali rappresenteranno una rottura negli stili di vita familiari o abituali, per cui richiederanno un livello di accettazione pubblica e anche di entusiasmo», come per esempio nel caso:
- della riduzione della temperatura negli edifici (19-20 °C) e del limite di 100 km/h sulle autostrade;
- della sostituzione dell’auto in città con il percorso a piedi, in bicicletta o usando i mezzi pubblici;
- della rinuncia di voli a lungo raggio non essenziali.
Evidentemente anche gli estensori del Rapporto non confidano molto nell’entusiasmo dei cittadini. Infatti, assegnano ai cambiamenti comportamentali un modesto 4% del risparmio delle emissioni carboniche nel 2050 rispetto al 2020, dando maggior credito a un improbabile 45% garantito da tecnologie ancora in fase di sviluppo.
Prevedono anche che «i tre quarti delle emissioni risparmiate tra il 2020 e il 2050 grazie ai cambiamenti comportamentali saranno direttamente influenzati o resi obbligatori da decisioni politiche».
Completa è invece la rimozione del problema da parte della Commissione europea, che continua a ignorare l’importanza del contributo potenziale alla transizione energetica da parte dei comportamenti dei consumatori, se fossero adeguatamente motivati.
Malgrado nelle ultime Direttive sul mercato elettrico e sulle rinnovabili il consumatore abbia un ruolo centrale – in quanto soggetto che da solo o insieme ad altri può anche accumulare o vendere sui mercati l’elettricità autoprodotta e partecipare ai meccanismi di flessibilità – non vengono presi in considerazione i comportamenti che determinano quantità e tipologia dell’energia da lui consumata. Una lacuna gigantesca, ai fini della decarbonizzazione.
Unica eccezione, un paragrafo del Piano d’azione per l’economia circolare del 2020, dedicato alle modalità per dare ai consumatori e agli acquirenti pubblici la possibilità di operare scelte informate; una smilza pagina in un mare magno di documenti comunitari è poco più di una goccia nel deserto.
Nell’esame delle misure per ridurre le emissioni di metano in agricoltura, che in Italia ne è la principale responsabile, i documenti comunitari ignorano che l’adozione di diete più ricche di alimenti di origine vegetale può dare un notevole contributo allo sviluppo sostenibile. Lo confermano il Manifesto sulle politiche agricole sostenibili del 9 marzo 2019, cofirmato da oltre 3.600 scienziati e, per il nostro Paese, l’ Italy Climate Report 2020 (pdf), secondo cui le emissioni di metano da sole rappresentano la metà di quelle del settore agricolo e sono generate innanzitutto dagli allevamenti intensivi.
Analogamente, le Direttive per aumentare l’efficienza energetica hanno finora trascurato il cosiddetto effetto rimbalzo (rebound effect).
La riduzione nominale dei consumi derivante da interventi di efficientamento nell’edilizia spesso non trova riscontro nella realtà. In Germania le nuove case sono quattro volte più efficienti rispetto a quelle edificate 40 anni fa, ma mediamente i loro consumi si sono solo dimezzati. proprio perché sono aumentati i livelli di comfort. Non meno importante è il rebound effect indiretto: il denaro risparmiato con il minor consumo energetico viene per esempio speso in un viaggio turistico in un paese esotico che altrimenti non avverrebbe; viaggio che darà il suo contributo alle emissioni di gas serra.
Rimosso anche in Italia
La proposta di piano della transizione ecologica, inviata dal governo italiano al Parlamento il 2 agosto scorso, dedica un paragrafo alla cittadinanza attiva per la transizione ecologica. Si tratta di una sola pagina su un testo di 161, in cui non solo si limita genericamente a indicare come strumento la promozione «grazie alle evidenze scientifiche e ad un’attenta analisi di rischi e benefici [di] una libera maturazione delle coscienze verso una cittadinanza più attiva, composta di scelte responsabili e consapevoli delle conseguenze ambientali delle azioni individuali e collettive», ma aggiunge due commenti che minimizzano le difficoltà da superare.
Ricorda che secondo “Net Zero by 2050” dell’Iea il 55% della riduzione delle emissioni al 2050 è correlato a scelte dei consumatori come l’acquisto di un veicolo elettrico, l’efficientamento di un’abitazione o l’installazione di una pompa di calore, che però, secondo lo stesso Rapporto, di per sé non riflettono cambiamenti nello stile di vita, cui infatti il Rapporto assegna solo il 4% della riduzione.
A questa, che benevolmente possiamo considerare una svista, la proposta di piano aggiunge una discutibilissima rassicurazione: «L’esperienza recente della pandemia da Covid-19 e la generale adozione di comportamenti individuali quali il distanziamento, l’uso della mascherina, l’utilizzo scaglionato dei trasporti e il lavoro da casa, hanno peraltro dimostrato che i cittadini possono modificare rapidamente e in massa le loro abitudini se comprendono che tali cambiamenti hanno una giustificazione».
Ignoro dove gli estensori di questo passaggio abbiano visto l’utilizzo scaglionato del trasporto urbano, ma saranno certamente a conoscenza di quanto è accaduto proprio in agosto, quando circa 8mila giovani sono arrivati da tutta Europa per partecipare a un rave party non autorizzato nell’Alta Tuscia, in una proprietà privata occupata senza chiedere il permesso. Non solo hanno messo a repentaglio la propria incolumità (un giovane è morto annegato, altri sono stati soccorsi per coma etilico), ma l’assenza di qualsiasi precauzione facilita la successiva diffusione di focolai di contagio.
È solo il caso estremo di un diffuso, spensierato ritorno alle abitudini pre-Covid, dove i giovani prevalgono, ma anche gli adulti abbondano, ben descritto da Domenico Starnone: «Ci siamo assemblati in spiaggia dall’ora dell’aperitivo fino a tarda notte, danzando. Abbiamo passeggiato sul lungomare dove sembravamo un esercito in libera uscita» (“Internazionale”, 3/9 settembre 2021).
Tutto questo, malgrado l’esperienza dell’estate precedente e le notizie di focolai d’infezione che si sono verificati in posti rinomati in Italia e all’estero. E non si tratta di un vizio soltanto italico.
Con una parte rilevante dei cittadini, nei quali la voglia di tornare a vivere come prima sembra prevalere sulla percezione dei rischi di una pandemia che nelle sue varianti continua a diffondersi intorno a noi, è lecito interrogarsi su quali possano essere le prospettive di una volontaria scelta di stili di vita che contribuiscano alla decarbonizzazione o, se ciò non si verifica, di misure restrittive, in questo caso permanenti.
Le vicende pandemiche che si dipanano davanti ai nostri occhi sono infatti copia conforme di un film che in due ore concentra quanto, nel romanzo da cui trae ispirazione, avviene nel corso di qualche decennio. A ritmo accelerato, l’azione del Covid-19 continua a presentarci difficoltà decisionali, che in parte già oggi, ma soprattutto nel prossimo futuro, ci riproporrà la crisi climatica.
Per esempio, di fronte a chi tarda a farsi vaccinare o è pregiudizialmente no-vax, logica e buon senso suggerirebbero l’immediata introduzione di un obbligo erga omnes, salvo quando è sconsigliato per la presenza di specifiche condizioni cliniche documentate che ne controindichino la somministrazione.
Ebbene, i Paesi che a metà settembre 2021 avevano introdotto la vaccinazione obbligatoria si contano sulle dita di una mano e nessuno appartiene al mondo sviluppato. Di fronte a chi sostiene che la vaccinazione per legge può essere considerata lesiva delle libertà dei cittadini, invece di ribattere che la libertà di contagiare non è un diritto, alcuni politici preferiscono opporsi all’obbligo di vaccinazione per lucrare voti dei no vax e dei dubbiosi. L’estensione del Green pass a tutti i lavoratori, decisa finalmente in Italia, è quanto di più avanzato si sia finora fatto nei Paesi sviluppati.
Prima di questa decisione, la debolezza nei confronti del rifiuto a vaccinarsi aveva dato ulteriore forza ai no-vax, movimento preesistente alla pandemia, che è riuscito ad aggregare persone in stato di disagio psichico, ma soprattutto sociale.
Una miscela che, come da copione, è sfociata prima in episodi di intimidazione e di violenza, successivamente nel tentativo di organizzare aggressioni.
Questi episodi sono anticipazioni di quanto potrebbe accadere qualora l’emergenza climatica dovesse imporre restrizioni, senza limiti temporali, in società che decenni di sfrenato neoliberismo hanno reso sempre meno inclusive, quindi, inclini all’individualistica difesa delle proprie abitudini.
Anche se esula dal tema di questo articolo, va sottolineato che l’obiettivo di pervenire a una società dove nessuno viene lasciato indietro, tramite la realizzazione degli obiettivi del Green Deal europeo, potrebbe risultare illusorio.
I miliardi destinati al Fondo per la transizione sono la somministrazione di aspirina per ridurre la febbre sociale, ma non ne eliminano le cause, che richiederebbero una ben più impegnativa riforma del sistema economico.
Le nostre responsabilità
Lo scorso 24 marzo una sentenza della Corte costituzionale tedesca ha imposto al governo di aumentare l’obiettivo al 2030, previsto dalla legge nazionale sul clima (emissioni climalteranti tagliate del 55% rispetto al 1990), perché «una generazione non può consumare una grande porzione del residuo budget di CO2, sopportando una parte relativamente minore dello sforzo che sarebbe richiesto [per ridurre le emissioni] e lasciando le generazioni successive alle prese con uno sforzo così drastico da esporre le loro vite a permanenti perdite di libertà».
È la stessa analisi che in diverse parti del mondo ha motivato la mobilitazione dei giovani a favore di più incisive politiche climatiche: non a caso Fridays for Future era tra le organizzazioni che hanno presentato il ricorso alla Corte tedesca.
Il movimento promosso da Greta Thunberg, come tutte le avanguardie di successo, è l’espressione attiva di un più ampio mutamento generazionale.
Rispetto alla rilevazione del 2018, nell’indagine Ipsos dello scorso giugno la percentuale di intervistati tra i 18 e i 34 anni che erano non informati o con una conoscenza vaga di cosa significhi sviluppo sostenibile, è scesa dal 45 al 35%; e la percentuale degli informati cresce ulteriormente nella Generazione Zeta (i nati tra il 1995 e il 2010).
Tuttavia, non abbiamo altrettanta evidenza sulla consapevolezza, da parte delle nuove generazioni, dei cambiamenti comportamentali che saranno loro richiesti per conseguire gli obiettivi di decarbonizzazione, oltre tutto da realizzare nei tempi brevi imposti dall’accelerazione della crisi climatica, mentre le modifiche degli stili di vita prediligono i tempi lunghi, perché, come scrisse Francis Scott Fitzgerald ne “Il Grande Gatsby” «così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato».
Anche se non è corretto trarre frettolose conclusioni da un unico episodio, è sintomatico che in una lunga intervista, apparsa sul “Corriere della Sera” del 7 settembre, Giovanni Mori, uno dei portavoce del movimento Fridays for Future, elenchi diverse misure per realizzare la neutralità carbonica, ma ignori il ruolo dei cambiamenti comportamentali.
In Italia anche chi con funzioni diverse è impegnato nella promozione dei processi di decarbonizzazione non solo tende quasi sempre a ignorare il ruolo che vi debbono avere i cambiamenti comportamentali, ma troppo spesso rinuncia anche a massimizzare il coinvolgimento attivo dei cittadini nelle proprie iniziative, creando quella consapevolezza di quanto sia grave la crisi climatica, certamente fondamentale per l’accettazione di cambiamenti negli stili di vita.
Proviamo a porci questa domanda: qualunque sia il nostro ruolo nella transizione energetica, quante volte usiamo la parola “efficienza” e quante invece “efficacia”? In realtà si tratta di un’interrogazione retorica, essendo la risposta scontata: “efficienza” stravince.
Interrogarsi su questo divario non è però esercizio ozioso.
Per esempio, si denuncia il danno provocato dalle lungaggini autorizzative al progetto di un impianto, spiegando che rendono quel progetto obsoleto, perché l’evoluzione tecnologica avvenuta nel frattempo offre soluzioni più efficienti.
Il discorso non fa una grinza ma, messo in questi termini, preoccupa giustamente i proponenti del progetto e se fossero più attenti alle implicazioni economiche negative del ritardo dovrebbe impensierire in pari misura anche i decisori pubblici.
Ma difficilmente disturberà i sonni del comune cittadino (e, senza alcun dubbio, quelli dei Sovrintendenti).
In realtà l’entità del danno prodotto dal ritardo è maggiore di quella calcolata con riferimento esclusivo all’efficienza, perché posporre la realizzazione dell’impianto ne diminuisce comunque l’efficacia.
La CO2 una volta emessa ha la pessima abitudine di permanere in atmosfera mediamente per circa un secolo, per cui ogni decisione che ne ritarda il taglio riduce il margine residuo del budget carbonico, che successivamente si potrà ancora emettere per contenere sotto due gradi la crescita della temperatura globale.
Investimenti urgenti
Anticipare per quanto possibile gli investimenti nelle rinnovabili (e nell’efficientamento energetico) rende quindi meno gravoso il futuro, soprattutto per chi sarà ancora vivo tra qualche decennio.
Tutte le critiche alla macchinosità del permitting e ai restringimenti ingiustificati delle aree disponibili per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili andrebbero pertanto accompagnate da spiegazioni chiare ed esaustive anche sulla maggiore efficacia, in termini di protezione degli interessi di tutti, in primis del territorio, garantita dagli impianti realizzati oggi e non in futuro.
Si tratta di replicare anche quanto avvenne nel XVIII secolo, quando in Olanda si diffusero i mulini a vento per azionare le pompe che drenavano il terreno, consentendo lo sviluppo di un’agricoltura florida su aree sotto il livello del mare.
Ebbene, alcuni dei cinque mulini di Schiedam sono alti più di 40 metri, dimensioni eccezionali per gli standard dell’epoca, che superano, in proporzione, quelle odierne delle più potenti turbine eoliche a terra.
Per gli abitanti dei Paesi Bassi i vantaggi derivanti dalla loro costruzione erano più facilmente comprensibili di quelli di un moderno impianto eolico o fotovoltaico ma, senza diffondere un’analoga consapevolezza, il percorso verso la decarbonizzazione rischia di rimanere troppo accidentato. Quasi sempre le opposizioni all’installazione di impianti a fonti rinnovabili, perché modificano il territorio e il paesaggio, non mettono sul piatto della bilancia il contributo che danno ad evitare questi effetti.
Occorre pertanto impegnarsi maggiormente per modificare questi comportamenti, cui contribuisce non poco una diffusa diffidenza verso qualsiasi cambiamento territoriale che non porti vantaggi diretti. Indubbiamente provocata dai non pochi disastri ambientali del recente passato, che va però rimossa con un impegno che finora è stato insufficiente.
Con la speranza che non si tratti di una rondine isolata, la quale notoriamente non fa primavera, va in questa direzione l’iniziativa di una “Guida turistica dei parchi eolici italiani”, pubblicata da Legambiente con il patrocinio di Anev.
Ricca di documentazione fotografica e di indicazioni pratiche (dove mangiare e dormire, quali altre luoghi limitrofi visitare) ha l’obiettivo di permettere a tutti di andare a vedere da vicino parchi eolici e di approfittarne per conoscere dei territori molto belli, ma fuori dai circuiti turistici più frequentati.
Contrariamente a Italia Nostra, che ha messo in circolazione foto di parchi eolici, usando il teleobiettivo da molto lontano, in modo da far apparire le turbine attaccate ai borghi pur essendo adeguatamente distanziate, quelle contenute nella Guida hanno il solo scopo di stimolare i cittadini a percorrere nuovi itinerari turistici, scoprendo che gli impianti a fonti rinnovabili vi si possono positivamente integrare.
E forse un giorno, come i mulini a vento olandesi, diventare un’attrazione turistica ed essere dichiarati dell’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
L’articolo è stato pubblicato sul n. 4/2021 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo: “Comportamenti divergenti”.