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Dopo i black out, la Cina frena sull’uscita dal carbone

È quanto emerge dalle ultime dichiarazioni del premier cinese, Li Keqiang.

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La Cina almeno per il momento non può rinunciare al carbone e intende costruire nuovi impianti alimentati con questo combustibile fossile.

È quanto emerge dalle dichiarazioni del premier cinese, Li Keqiang, durante un incontro con la National Energy Commission e riportate dal Guardian e da altra stampa internazionale.

Il premier cinese, seconda carica del paese dopo il presidente e segretario del Partito Xi Jingping, infatti, ha rimarcato l’importanza di avere approvvigionamenti stabili di energia, dopo che vaste aree del paese sono state investite da black out che hanno coinvolto abitazioni e stabilimenti produttivi.

Il colosso asiatico è entrato nella tempesta perfetta del caro-energia a livello internazionale, con aumento dei consumi elettrici, prezzi in crescita di gas e carbone, forniture a singhiozzo, necessità di interrompere le attività nelle fabbriche e di razionare la disponibilità di energia nelle città.

Secondo le autorità cinesi, si legge sul Guardian, è necessario ottimizzare l’attuale potenza di generazione a carbone, costruire nuove centrali a tecnologia avanzata, in linea con le esigenze di sviluppo e continuare a dismettere gli impianti più vecchi in modo ordinato.

La ripresa economica post-Covid, spiegava Bloomberg nei giorni scorsi a proposito della Cina, ha spinto in alto la domanda di energia, mentre i minori investimenti nelle attività minerarie e nel settore oil&gas hanno limitato la produzione nazionale di combustibili fossili.

Questo è un enorme problema in un paese che ancora dipende in massima parte dalle risorse energetiche tradizionali. Nel settore elettrico, il carbone vale oltre il 60% della generazione complessiva, tanto che la Cina è il principale emettitore di CO2 nel mondo, essendo responsabile di circa un terzo delle emissioni globali di anidride carbonica.

La sicurezza energetica, ha sottolineato Pechino, dovrebbe essere la premessa su cui si costruisce un sistema energetico moderno.

Così le autorità hanno intanto ordinato alle miniere dello Shanxi e della Mongolia interna di incrementare la produzione di carbone, in modo da assicurare forniture regolari e scongiurare il ripresentarsi di black out.

La posizione di Pechino sul carbone resta quindi ambigua.

Il presidente cinese, Xi Jinping, alla 76esima assemblea generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato che la Cina smetterà di finanziare la costruzione di nuove centrali a carbone in paesi esteri, ma senza fornire maggiori dettagli su tempi e modi di questa decisione. E soprattutto senza menzionare il carbone domestico.

Il punto è che senza un impegno vincolante a eliminare questa fonte fossile dal mix energetico interno, attraverso una politica di coal phase-out al pari di molti paesi europei, la Cina non potrà acquisire una piena credibilità nella lotta contro i cambiamenti climatici.

La situazione quindi è complessa: la Cina deve tagliare le emissioni e utilizzare meno carbone, ma con meno carbone (e meno gas) la sua economia fa fatica, come conferma il power crunch di queste settimane.

Ricordiamo che a settembre 2020, Jinping aveva annunciato che Pechino si sarebbe impegnata a raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030 e poi la neutralità carbonica (azzeramente delle emissioni nette di CO2) nel 2060.

Ora che si avvicina il vertice Onu sul clima, la CoP26 di Glasgow, il ripensamento cinese sul ruolo del carbone potrebbe mettere a rischio la buona riuscita dei negoziati internazionali contro il cambiamento climatico.

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