Attenti ad argento, indio e bismuto: potrebbero limitare la diffusione del fotovoltaico

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Anche per celle e moduli FV potrebbero esserci in futuro dei limiti per le materie prime utilizzate. Le quantità in gioco e le possibili alternative.

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Un aspetto positivo del fotovoltaico al silicio cristallino è che non ha tutte quelle limitazioni indotte da elementi rari che potrebbero tarparle le ali.

Lo stesso non si può dire per la diffusione delle batterie al litio, dove i componenti critici sono cobalto, nichel e lo stesso litio, o delle turbine eoliche, che richiedono neodimio per i magneti ad alta potenza, o dei pannelli solari a film sottile, a cui serve uno strato anteriore conduttivo a base del non certo comunissimo indio.

Un pannello al silicio cristallino è composto, ovviamente, di silicio, l’elemento solido più diffuso sulla Terra, e degli altrettanti comuni alluminio, plastica, vetro.

È vero, i “filini” metallici anteriori, che servono a catturare le cariche elettriche positive prodotte nel silicio dalla luce, sono fatti di argento, mentre altro argento è spalmato sul retro della cella, per catturare le cariche negative. Ma si tratta di quantità minime.

Eppure, anche quelle quantità minime, avverte ora su Energy & Environmental Science Zhang Yuchao, ingegnere della University of New South Wales a Sydney, potrebbero costituire un grosso ostacolo alla diffusione del FV, considerando l’enorme futura richiesta della tecnologia.

Ci sono anche altri due elementi non comuni, l’indio e il bismuto, che potrebbero costituire un collo di bottiglia ancora più ristretto per nuove e promettenti tecnologie solari.

“In effetti, a livello globale dovremo dai 135 GW di FV installato nel 2020, ai 3.000 GW del 2030, per arrivare al 2050 ad averne 70.000. Ma oggi l’utilizzo di questi metalli nel fotovoltaico è troppo alto per raggiungere quei livelli di produzione: circa 15 mg/W di argento, 13 mg /W di bismuto e 4 mg/W di indio”, spiega Yuchao.

Possono sembrare minime quantità, ma considerando i 3 TW di produzione necessari al 2030, vorrebbero dire usare 45.000 tonnellate di argento, su una produzione totale di 29mila t nel 2019, 39.000 t di bismuto, su una produzione di 21mila, e 12.000 t di indio, su una produzione di 2.100, senza considerare che tutti e tre gli elementi hanno numerosi altri usi, come i touch screen di computer e cellulari nel caso dell’indio.

“Per soddisfare la richiesta del FV al 2030, e considerando un uso non superiore del 20% della produzione dei tre metalli, bisognerebbe scendere a non più di 2 mg/W per l’argento, 0,38 mg/W per l’indio e 1,8 mg/W per il bismuto. Uno sforzo tecnologico enorme, che non è detto si possa ottenere”, dice l’ingegnere australiano

Considerando i consumi attuali, ed escludendo un grande aumento della produzione mineraria, che sarebbe ambientalmente insostenibile, secondo i ricercatori la potenza totale di FV con argento che il mondo potrà al massimo e ragionevolmente installare non supererà i 377 GW l’anno.

Le cose vanno ancora peggio per l’indio. Oggi questo metallo serve solo per i modelli di FV a film sottile, come quelli a silicio amorfo o CdTe, che hanno sì uno strato di conduttore trasparente anteriore, ma coprono appena il 3-5% del mercato.

“Ma in futuro le cose potrebbero cambiare: fra le tecnologie più promettenti, ci sono quelle a eterogiunzione, dove si uniscono diversi tipi di materiali fotosensibili, per esempio silicio e perovskite, allo scopo di ottenere un’elevata efficienza. Ebbene, queste celle richiedono lo strato anteriore conduttivo trasparente”, dice Yuchao.

Secondo i ricercatori, la frazione allocabile di indio per il FV non consentirebbe di superare i 37 GW di potenza annua.

Infine, c’è il bismuto, l’elemento meno noto dei tre, indispensabile per le saldature a bassa temperatura fra uno strato e l’altro nelle celle FV a eterogiunzione.

Secondo i ricercatori la produzione di bismuto ragionevolmente allocabile al FV limita la potenza producibile di celle a etero giunzione a 330 GW l’anno, confermando che per loro il vero collo di bottiglia resta l’indio ma che, anche se si superasse quello, subentrerebbe il limite del bismuto.

E allora che si fa? Si rinuncia alla tecnologia più importante per la transizione energetica, perché mancano questi elementi?

“Assolutamente no – ribatte Yuchao – solo che nello scegliere le tecnologie solari del futuro, bisognerà non dimenticare il fattore ‘rarità degli elementi’, per evitare brutte sorprese. Per esempio, fra le tecnologie migliori per il FV a silicio cristallino, le Perc sono quelle che richiedono meno argento, 96 mg per cella, contro i 163 delle più efficienti TOPcon, e i 218 delle eterogiunzione, che potrebbero essere ancora più efficienti».

Queste quantità certamente si ridurranno nei prossimi anni per tutte e tre le tecnologie, per esempio utilizzando altre configurazioni dei conduttori in argento nei moduli, ma esistono limiti fisici sotto i quali non si potrà andare: per le Perc, per esempio, è difficile che si scenda sotto i 55 mg a cella.

“L’argento può essere anche eliminato del tutto: esiste già per esempio una tecnologia che lo sostituisce con il rame e che è stata impiegata in alcuni modelli di pannelli commerciali in passato, dimostrando di essere affidabile”, afferma Yuchao.

“E usare il rame per i conduttori interni al pannello, vuol dire aggiungerne una minima frazione rispetto a quello già usato per i fili esterni. Se il rame poi non bastasse si sperimenta già anche l’uso del più comune alluminio. Certo, bisognerà riuscire ad ottenere con questi metalli l’alta adesione al silicio e l’alta conduttività che assicura l’argento, ed essere certi che restino tali anche dopo decenni di esposizione all’aperto», conclude il ricercatore.

Quindi, la scarsità di argento, non è poi un limite insuperabile alla futura produzione sulla scala dei TW del solare: se questo elemento dovesse cominciare a dare problemi di reperibilità o di prezzo, le alternative a disposizione dei produttori per ridurne o eliminarne l’uso non mancherebbero.

Più complicati, invece, per l’indio e il bismuto.

Gli strati trasparenti conduttivi a base di ossido di indio non si possono ridurre troppo di spessore, per motivi meccanici e di conduzione elettrica. Quindi se si vuole veramente arrivare alla scala dei TW con pannelli a eterogiunzione sarà necessario trovare un sostituto.

Uno possibile è l’AZO, un composto di ossido di zinco dopato con alluminio, che ha dimostrato in laboratorio buone performance: ma la sua conduttività è minore di quella dell’ossido di indio e non si è così sicuri sulla sua resistenza alla radiazione solare nel tempo.

Per il bismuto il discorso è simile: bisognerà trovare sistemi per ridurne l’uso o per sostituirlo. I primi sono già disponibili sotto forma di saldature stagno-bismuto in cui il secondo elemento è assai poco presente. Però anche lo stagno non è che sia abbondantissimo.

Per la sostituzione totale bisognerà testare anche nella costruzione delle celle ad eterogiunzione l’uso di adesivi conduttivi a freddo, come quelli che già vengono usati per l’assemblaggio dei pannelli “shingle”, dove le celle sono parzialmente sovrapposte come tegole.

Insomma, qualche nube minacciosa di “colli di bottiglia” all’orizzonte è presente anche nel caso dei pannelli fotovoltaici, ma non si tratta dei pesanti temporali che rischiano di abbattersi, per esempio, sull’industria delle batterie, se non riuscirà a fare a meno di cobalto e nichel.

Potremmo ritenere che nel peggiore dei casi la transizione energetica si farà usando moduli al silicio cristallino con conduttori in rame: essendo meno efficienti ne serviranno forse di più, ma l’orizzonte dei TW annui di installazione deve essere alla nostra portata.

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