Rinnovabili e storage. Che cos’è l’accumulo elettrico termico?

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Adatto ad un ciclo breve o di pochi giorni, si basa sull'uso di elettricità in eccesso per creare un dislivello di calore fra due serbatoi. Ancora in fase sperimentale, vediamo come funziona, con quale efficienza e con quali costi.

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C’era da aspettarselo: più c’è la necessità di immagazzinare energia per compensare l’intermittenza delle fonti rinnovabili e più dai cassetti dei centri di ricerca emergono progetti di ogni genere.

L’offerta è ormai talmente variegata, che è difficile capire quali di queste tecnologie prevarranno sulle altre, grazie ai loro particolari vantaggi in termini economici, di affidabilità, di velocità di risposta e semplicità.

Su QualEnergia.it, per esempio, in questi ultimi mesi vi abbiamo parlato di accumuli stagionali realizzati con pompaggi idroelettrici, aria compressa o idrogeno, e di accumuli di più breve termine con batterie al litio, aria liquida, e batterie a flusso e persino altre idee, più bizzarre, come quella di impilare blocchi di calcestruzzo.

Ma se pensate che i contendenti si siano ormai tutti presentati, vi sbagliate: due neo dottori in ingegneria energetica dell’Università di Cambridge, Antoine Koen e Pau Farres Antunez, hanno ricordato sul settimanale online The conversation, che, da una decina di anni, in veri laboratori, si sta valutando un’altra tecnica che potrebbe sbaragliare tutte o quasi le precedenti, tanto è semplice, economica e installabile ovunque. Si tratta dell’accumulo elettrico termico (AET) o Pumped thermal electricity storage.

Anche qui, va creato un dislivello

L’idea, in teoria, è molto semplice: si tratta di usare l’energia elettrica in eccesso per creare un dislivello di calore fra due serbatoi, uno “caldo” e uno “freddo”, e poi annullare questo dislivello recuperando l’energia spesa per crearlo.

Il principio del “creare un dislivello” è in fondo lo stesso di tutti i sistemi di accumulo: nel pompaggio idroelettrico, per esempio, il dislivello è gravitazionale, creato spendendo energia per portare l’acqua nel serbatoio in alto, mentre nelle batterie la carica crea un dislivello elettrochimico, fra due “serbatoi”, gli elettrodi, contenenti ioni carichi positivamente o negativamente.

«Però gli impianti AET richiedono poco spazio, componenti molto semplici ed economici, e, con l’opportuna manutenzione, hanno una durata illimitata. Invece l’accumulo elettrochimico costa caro e ha una vita relativamente breve; produrre idrogeno e poi riutilizzarlo per produrre elettricità richiede grandi serbatoi di accumulo e ha una bassa efficienza. L’aria compressa e il pompaggio idroelettrico richiedono impianti enormi, non realizzabili ovunque, per ottenere capacità di accumulo adeguate alle esigenze della rete», spiega Koen.

«Per fare un esempio, per portare un chilogrammo di acqua a 500 metri di altezza serve 100 volte meno energia che per scaldarlo da 0 a 100 °C. È chiaro che accumulare calore, richiederà impianti molto più compatti, a parità di capacità», chiarisce il ricercatore.

Ma come funziona in pratica questo AET?

Si tratta essenzialmente di abbinare una sorta di pompa di calore a una turbina a gas.

Nella fase di carica, un compressore, alimentato dall’elettricità in eccesso, comprime un fluido di trasporto in uno scambiatore di calore, alzando la sua temperatura. Il calore così ottenuto viene passato a un secondo fluido di accumulo “caldo”, immagazzinato in un serbatoio termicamente isolato. Dopo lo scambio, il fluido di trasporto cede in un “rigeneratore” il calore residuo a un secondo fluido di accumulo, questa volta “freddo”, contenuto in un altro serbatoio, e torna allo stato iniziale.

Quando serve recuperare l’elettricità spesa nella compressione, il fluido nel serbatoio “caldo” cede il suo calore al fluido di scambio, che si espande in una turbina a gas, che fa così girare un accumulatore, restituendo l’elettricità accumulata.

Infine, il fluido di scambio, raffreddato dall’espansione, recupera il calore accumulato nel serbatoio “freddo”, attraverso un secondo “rigeneratore” e torna allo stato iniziale.

Tutta questa danza di fluidi, serve a limitare le perdite di calore nei vari cicli di compressione ed espansione, e ad alzare così l’efficienza dell’impianto, che altrimenti sarebbe molto bassa.

«Combinando diversi fluidi di trasporto, fluidi di accumulo e tipi di serbatoio, si possono creare impianti più o meno complessi, costosi, ingombranti ed efficienti, per soddisfare tutte le esigenze. E si può anche abbinare questi impianti a industrie che hanno bisogno di calore per i loro impianti, o, viceversa, a industrie o impianti a rinnovabili che hanno calore di scarto, che può essere accumulato nel “serbatoio caldo”, aumentando l’efficienza del sistema», spiega Koen.

Più è alta la differenza di temperatura fra i due serbatoi, comunque, più cresce l’efficienza dell’AET.

In un progetto francese, per esempio, è stato teorizzato un impianto che usa gas argon come fluido di trasporto, e opera a una differenza di temperature fra i 1000 °C del “serbatoio caldo”, e i 70 °C di quello “freddo”. Con un salto di temperatura così ampio, in teoria, si possono ottenere efficienze superiori al 70%, non molto distanti da quelle del pompaggio idroelettrico, ma ovviamente l’impianto diventa molto complesso e costoso.

Con quali costi?

Al contrario, Pau Farres Antunez, nella sua tesi di dottorato (pdf), ha ipotizzato impianti AET che funzionano a temperature molto più basse, anche solo quelle dell’acqua bollente, con fluidi di trasporto a base di ammoniaca o CO2, come nei frigoriferi industriali, e serbatoio freddo costituito semplicemente dall’aria: qui le efficienze teoriche scendono però a circa il 50%, quindi per ogni due kWh che vi si immette, se ne perde uno. L’impianto però è molto semplice ed economico.

I due impianti preferiti da Farres Antunez, però, sono ben più complessi ed efficienti, in grado di fare concorrenza al pompaggio idroelettrico.

Il primo, ad alta capacità di recupero del calore, ha una efficienza del 65% e una densità di energia di 46 kWh al metro cubo di serbatoio, con un costo di 470 $/kW e 15 $/kWh.

Il secondo, che usa come serbatoio freddo addirittura dell’aria liquida a -190°C, raggiunge un’efficienza del 71%, densità 63 kWh/mc, costo 600 $/kW e 8-15 $/kWh.

«Per confronto una batteria al litio fa pagare l’accumulo circa 200 $/kWh e dura solo pochi anni, mentre un impianto AET è quasi “eterno”. Il pompaggio idroelettrico, nelle migliori condizioni possibili, ha certo un’efficienza più alta, 70-80%, e un costo di accumulo che può essere anche solo di 5 $/kWh, ma ha un ingombro enorme, tanto che la sua densità di energia media è di 1 kWh/mc, limitandolo solo a poche aree geografiche. Insomma, l’AET offre una alternativa a costi comparabili al pompaggio, ma installabile ovunque, e in grado di accumulare tutta l’energia che si vuole», dice Pau Farres Antunez.

Però l’AET, dobbiamo ritenere, sarà certamente confinato ai soli cicli di accumulo brevi, visto che il serbatoio caldo nel tempo si raffredda?

«Non è detto. La perdita di calore dipende dalla superficie del serbatoio: più è grande e più questa è piccola in relazione al volume. Grandi serbatoi molto isolati possono mantenere una temperatura adeguata anche per 15 giorni. Per compensare gli squilibri offerta-domanda giornalieri o settimanali, comunque, l’AET è perfetto», conclude Koen.

Tutto bene quindi, se non fosse per un particolare non trascurabile: per adesso l’accumulo elettrico termico esiste solo sulla carta, o, al massimo, in piccoli impianti sperimentali. Aspettiamo, anche in questo caso, con fiducia di vederlo all’opera e valutare se manterrà tutte queste promesse.

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