Arriverà qualche nuova tecnologia in grado di fare concorrenza alle batterie per l’accumulo energetico?
Qualcuno scommette di sì: tra le aziende impegnate a sviluppare soluzioni di energy storage di lunga durata, c’è una start-up canadese, Hydrostor, che ha appena ottenuto dei finanziamenti dal governo australiano per costruire il primo sistema avanzato di accumulo con aria compressa in Australia (A-CAES: Advanced Compressed Air Energy Storage).
L’Australia è un paese-laboratorio particolarmente interessante per capire come può evolversi una rete elettrica con più fonti rinnovabili, meno combustibili fossili e frequenti picchi di consumi, soprattutto durante le ondate estive di calore.
Non è un caso che sia in Australia l’installazione di batterie al litio più grande del mondo, quella da 100 MW/129 MWh realizzata a tempo di record da Tesla nel 2017, con l’obiettivo di testare il funzionamento degli accumulatori per migliorare la sicurezza e continuità delle forniture di energia; tanti blackout hanno già colpito diverse aree del paese negli ultimi anni, a causa delle impennate improvvise dei consumi o di eventi climatici estremi (tifoni ad esempio), che hanno messo in crisi le linee elettriche.
E sempre Tesla, in Australia, sta partecipando a un progetto pilota per creare una centrale elettrica virtuale, costituita da migliaia di impianti fotovoltaici con batterie nelle abitazioni (vedi qui).
Che cosa vuole realizzare, invece, Hydrostor?
In sintesi: riconvertire un’ex miniera di zinco (Angas Zinc Mine), situata una sessantina di km da Adelaide, nello Stato del South Australia, in un impianto con tecnologia CAES da 5 MW/10 MWh di capacità di accumulo, dimostrando così che la sua idea di stoccaggio energetico può essere vincente.
Il progetto della società canadese, che nel complesso richiederà un investimento pari a 30 milioni di dollari (australiani), riceverà 6 milioni dall’agenzia statale per lo sviluppo delle rinnovabili (ARENA, Australian Renewable Energy Agency) e 3 milioni dal governo locale del South Australia.
La tecnologia concepita da Hydrostor, semplificando al massimo (vedi anche la nota diffusa dall’ARENA e il video sotto), prevede di utilizzare l’energia elettrica in eccesso sulla rete per alimentare un compressore e così produrre aria compressa, il cui calore viene stoccato in dei serbatoi termici. Poi l’aria compressa finisce in una cavità sotterranea (scavata per questo scopo, oppure si può sfruttare una cavità esistente, come quella della miniera di Angas).
Per mantenere il sistema a una pressione costante, si ricorre alla pressione idrostatica di una colonna d’acqua, proveniente da un bacino idrico soprastante.
In altre parole: nella fase di carica il sistema di accumulo riempie d’aria compressa la cavità, spingendo fuori l’acqua verso il bacino. Nella fase di scarica invece, è l’acqua a fluire nel sottosuolo, spingendo fuori l’aria, che poi sarà nuovamente scaldata con l’energia termica immagazzinata in precedenza, in modo da “espanderla” e attivare una turbina, che a sua volta produrrà elettricità, chiudendo il ciclo.
Quindi è come avere una batteria sempre pronta a fornire energia su richiesta, quando c’è un picco di consumi o il rischio che si verifichi un blackout. Un impianto del genere potrebbe fornire anche dei servizi di flessibilità alla rete, come la regolazione di frequenza.
Hydrostor punta a completare questo progetto nel 2020 e convincere così altri investitori che un sistema ad aria compressa è una soluzione ottimale per assicurare stabilità alla rete elettrica.
Ma come fa notare un’analisi di GTM Research sull’iniziativa australiana, firmata da Julian Spector, siamo ancora molto lontani dal competere ad armi pari con l’accumulo elettrochimico: per riuscire nell’impresa, Hydrostor dovrà arrivare a costruire impianti molto più grandi, nell’ordine di centinaia di MW con almeno dieci ore di capacità di stoccaggio energetico.
Allora anche l’aria compressa, su una dimensione operativa così ampia, potrebbe raggiungere la mitica soglia (“near-mythical threshold” sono le parole usate da Spector) di 100 dollari per kWh che potrebbe mettere in crisi la supremazia del litio rispetto alle altre soluzioni in corso di sviluppo.