Tutti pazzi per l’idrogeno, ma per l’accumulo di lungo periodo meglio il pompaggio idro

Nel mondo ci sono oltre 616mila località dove potrebbero essere costruiti impianti di pompaggio idro a circuito chiuso. Basterebbe costruirne solo l'1% per stoccare l'energia da rinnovabili che ci serve. Potenzialità e criticità.

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In questa fase della transizione energetica la parola chiave è diventata “idrogeno”.

Tutti ne parlano. Addirittura, l’Australia ci vuole costruire intorno un’industria per l’export, l’Europa ci punta forte e la stessa Italia ha deciso di investire 2 miliardi in questo vettore energetico.

Ma a che dovrebbe servire l’idrogeno? In piccola parte per “rinverdire” certe lavorazioni industriali, come l’acciaio e, in piccola parte, per far muovere alcuni veicoli pesanti.

Ma il principale uso dell’idrogeno verde dovrebbe essere quello di accumulare sul lungo periodo e in grandi quantità le energie rinnovabili nei momenti di eccesso di produzione, e poi produrre nuova energia quando mancheranno sole e vento. Insomma, servire a quell’accumulo massivo e di lungo periodo per cui le batterie non sono adatte.

Ora il punto è questo: ma l’Italia ha veramente bisogno di questo tipo di accumulo?

Per paesi poco montuosi, come Germania o Gran Bretagna, l’opzione idrogeno potrebbe essere quasi obbligata, ma il nostro paese è ricco di alture e di bacini idrici, esistenti e potenziali che potrebbero, pompando l’acqua in alto quando l’energia innovabile è in eccesso, e facendola tornare in basso attraverso turbine quando manca, svolgere benissimo la funzione di accumulo di lungo periodo, usando tecnologie semplicissime, economiche ed efficienti: pari all’80% contro il 40% del ciclo dell’idrogeno, se non si recupera il calore di conversione.

Come QualEnergia.it ne parliamo da sempre. Sono molti anni che Terna e RSE insistono sulla necessità di costruire impianti di pompaggio per l’accumulo, soprattutto nel meridione, al di là di quelli per quasi 8 GW oggi esistenti, che però si trovano quasi tutti al nord e sono ampiamente sottoutilizzati. Finora nulla si è mosso, e anche il piano del recovery fund, non dedica una parola a questa tecnologia.

Forse perché, si potrebbe pensare, essendo legata a particolari condizioni geografiche, in fondo, non può soddisfare che una piccola parte delle esigenze di stoccaggio energetico?

Che non sia così ce lo ricorda uno studio realizzato da Matthew Stocks, ingegnere della Australian National University, che su Joule ha presentato una ricerca in cui mostra come nel mondo ci siano oltre 616mila località dove potrebbero essere costruiti impianti di pompaggio idro a circuito chiuso, cioè con due bacini, uno in basso e uno almeno 100 metri più in alto e a non più di pochi chilometri fra loro, che si scambiano acqua al solo scopo di accumulare energia.

Il loro potenziale di accumulo totale è di 23.000 TWh l’anno, come dire abbastanza da immagazzinare tutta la produzione elettrica mondiale; quindi più che sufficiente a stoccare tutta l’energia attuale e futura in arrivo da eolico e solare.

«Per la precisione, visto che ogni giorno il mondo usa circa 76 TWh di elettricità, basterebbe costruire anche solo l’1% di quegli impianti, distribuiti in modo razionale fra le nazioni, per risolvere ogni problema di accumulo di energie intermittenti. Direi che 6160 coppie di bacini su tutto il pianeta Terra non sono poi così tanti se ci permettono di risolvere uno dei principali problemi chiave della transizione energetica, mi pare. Invece questa ipotesi, con l’attuale idrogeno-mania, che segue la batterie-mania, è presa assai poco in considerazione», dice Stocks.

Forse una delle ragioni per questa “indifferenza” verso l’ipotesi dei ricercatori australiani, è che la localizzazione dei loro potenziali impianti agli occhi di chi vive nei paesi interessati, appare un po’ bizzarra.

In Italia, per esempio, la loro mappa prevede bacini anche in aree forestali protette o in pianure densamente coltivate e ricche di strade e fattorie: non c’è alcuna chance che impianti simili vengano costruiti.

«Il nostro atlante – ribatte Stocks – si basa solo sulle condizioni geografiche dei terreni, non su fattori socio-economici e normativi, perché il suo scopo è quello di mostrare ai governanti locali quante possibilità avrebbero di risolvere il problema accumulo di lunga durata in questo semplice modo. Poi, ovviamente, spetta a loro e alle popolazioni decidere quali, fra i tanti impianti proposti dal nostro algoritmo, si possano veramente realizzare. Visto che ne basta un centesimo del totale, non dubito che quasi ogni paese potrà trovare fra le proposte quelle sufficienti ai suoi scopi».

C’è poi un’altra cosa che rende perplessi: perché non prendere in considerazione anche la possibilità di usare il mare come “bacino inferiore” da cui succhiare e re-immettere acqua, evitando così i problemi collegati a costruire due bacini ravvicinati fra loro, e quelli legati all’uso di acqua dolce, che in molti paesi è così scarsa e preziosa che l’idea di impiegarla per l’accumulo elettrico, sottoponendola quindi anche alle perdite per evaporazione, sarebbe certo respinta.

«Ovviamente siamo consapevoli che esiste anche la possibilità di accumulo idrico basato su acqua di mare – dice Stocks – ma è una tecnica che ha un solo precedente, quello dell’impianto di Yanbaru, nell’isola di Okinawa, che ha funzionato solo per una quindicina di anni. Oggi nessuno dei 180 GW di storage idrico nel mondo è basato su quella tecnica, così l’assenza sul mercato di componenti specifici, come turbine per acqua di mare, la rende molto costosa».

Più costosa del dover comprare il terreno per due bacini e doverli attrezzare?

Risponde Stocks: «Sì, al momento è così: un progetto di accumulo idrico vicino a Port Agusta, nel sud dell’Australia, doveva essere basato sull’acqua di mare, ma considerazioni ambientali, riguardanti l’immissione in mare di grandi quantità di acqua in fase di produzione elettrica, e di costi, hanno fatto sì che la società Energy Australia tornasse a un progetto con due bacini ad acqua dolce, ottenuta dissalando l’acqua di mare».

«È vero però – continua l’ingegnere della Australian National University – che avrebbero preferito il primo progetto, se avessero avuto a disposizione un mare più profondo. Quindi non escludo che in altre situazioni, come in Cile o Gran Bretagna,  ad esempio, quella opzione possa essere la preferita. Magari in futuro faremo una mappa anche per individuare i punti più adatti per l’accumulo idroelettrico dal mare».

Acqua marina o dolce che sia, usare bacini idrici per lo stoccaggio consentirebbe anche di coprirli di impianti fotovoltaici galleggianti, che non solo ne ridurrebbero le perdite per evaporazione, ma risolverebbero gran parte della necessità di produzione da rinnovabili, senza consumare un metro quadrato in più di terreno: una combinazione win-win che raramente capita di incontrare.

Il che non fa altro che acuire in noi italiani la perplessità sulle ragioni per cui questa soluzione così adatta al nostro paese, sia così platealmente snobbata: eppure già nel 2012 una ricerca, aveva individuato in Italia una potenzialità di accumulo idroelettrico annuale di 79 TWh (contro i 2 TWh attuali), cioè un quarto dei consumi totali, più che sufficiente a soddisfare le esigenze di bilanciamento di una rete al 100% fatta da rinnovabili in buona parte intermittenti.

Ma invece di puntare su quello, adesso andremo a spendere 2 miliardi nell’idrogeno, che forse in futuro servirà alla stessa cosa, ma certamente richiederà tempi molto più lunghi, con costi molto più alti e finirà per avere un’efficienza nel recupero dell’energia molto inferiore del pompaggio idroelettrico.

Il sospetto è che l’idrogeno, potendo essere prodotto anche dal gas naturale, e richiedendo le stesse infrastrutture che oggi distribuiscono il metano, sia visto dall’industria dei fossili come la manna dal cielo che consentirà di continuare ad usare a lungo gli asset che, con una transizione energetica che abbandonasse rapidamente i fossili, sarebbero finiti disastrosamente (per loro) al passivo.

Usare dei banali bacini idroelettrici per accumulare energia sul lungo periodo, sarebbe un bene per il paese, e un altro chiodo nella bara del metano fossile.

Allora, meglio dire vade retro pompaggio idroelettrico, vieni avanti sant’idrogeno…

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