Una start up italiana realizza elettrodi innovativi per batterie a flusso

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La startup del Politecnico di Milano "Flow-nano" sviluppa elettrodi avanzati per batterie a flusso, promettendo un'innovazione chiave nel settore dell'accumulo energetico. Ne parliamo con l'Ad, Laura Giorgia Rizzi.

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L’Italia non è famosa nel mondo né per la capacità di applicare all’industria la sua produzione scientifica, né per la sua presenza fra i grandi produttori e innovatori nel mondo delle rinnovabili.

Ma tutto è così grigio. Ecco una notizia che sfata questi due pregiudizi: una startup del Politecnico di Milano, chiamata Flow-nano, è riuscita a concretizzare i suoi studi di laboratorio su un importante miglioramento di una tecnologia di accumulo, e ora ha ricevuto il finanziamento (pubblico) decisivo per passare alla fase di industrializzazione.

A dirigere Flow-nano è Laura Giorgia Rizzi, laureata al Politecnico in Ingegneria fisica, e poi specializzatasi in fisica.

Dottoressa Rizzi ci spieghi qual è l’innovazione che ha convinto Tech4Planet, il Polo Nazionale di Trasferimento Tecnologico per la Sostenibilità, nato su iniziativa di Cassa Depositi e Prestiti, a concedere un milione di finanziamento alla vostra startup.

In poche parole, abbiamo realizzato il sogno di chi produce batterie a flusso: dotarle di elettrodi al tempo stesso sottili e performanti, con cui realizzare dispositivi competitivi con le batterie al litio.

Perché questi elettrodi sono così importanti?

Per capirlo bisogna spiegare come funzioni una batteria a flusso. In questi dispositivi flussi di soluzioni contenenti elementi chimici con diversi livelli di ossidazione, reagiscono fra loro attraverso una membrana che non fa passare gli elettroni che si scambiano. Gli elettroni sono così costretti a percorrere un circuito esterno, che alimenterà dispositivi elettrici durante la scarica, oppure sarà alimentato da una fonte elettrica durante la ricarica.

Con quale beneficio?

Il grande vantaggio delle batterie a flusso è che la loro capacità è determinata dal volume della soluzione elettrolitica, mentre la potenza è proporzionale alla superficie degli elettrodi sui quali avvengono le reazioni di ossidoriduzione. Insomma, con le batterie al litio per aumentare potenza e capacità devo aggiungere nuovi e costosi elementi completi del dispositivo, invece con le batterie a flusso potenza e capacità sono separate e aumentabili a volontà moltiplicando o i litri di elettrolita oppure la superficie dell’elettrodo.

Questi elettrodi sono oggi per lo più realizzati in fibra di carbonio che resiste ottimamente agli acidi contenuti nelle soluzioni…

Esatto, ma le lisce fibre di carbonio offrono poca superficie su cui far avvenire le reazioni chimiche, il che costringe, per aumentare la potenza della batteria, a usare grandi estensioni di elettrodo, impilando più camere di reazione una sull’altra; ciò rende il dispositivo più costoso e complesso. Per ridurre il problema oggi si usano “feltri” di fibre di carbonio spessi alcuni millimetri. Ma questa “spugna” fa resistenza al flusso delle soluzioni reattive, penalizzando potenza ed efficienza del dispositivo e, di nuovo, costringe ad aumentare le camere di reazione.

E voi avete trovato la soluzione al problema?

Esatto. Ideando un processo di deposizione di nanosfere di carbonio sulle fibre. In pratica, in una camera a vuoto si decompone del gas acetilene in idrogeno e carbonio. Quest’ultimo condensa formando miliardi di miliardi di sfere concentriche, simili a cipolle, larghe pochi milionesimi di millimetro, che, mosse da un campo magnetico, vanno ad impattare sulla fibra restandovi attaccate e facendo diventare la superficie estremamente irregolare e rugosa. Un successivo trattamento termico, fa reagire chimicamente sfera e fibre, in modo che si uniscano permanentemente. Risultato: un elettrodo di carbonio spesso un terzo di millimetro, un decimo dei feltri, ma che ha tre volte la loro stessa superficie reattiva, senza ostacolare il passaggio dell’elettrolita.

E funzionano?

Sì, abbiamo ovviamente fatto prove in laboratorio per misurare la reattività dei nostri elettrodi nano strutturati, constatando che triplicano la potenza ottenibile a parità di superficie con i feltri.

Ma è così importante questo elemento nel determinare il costo di una batteria a flusso? Molti stanno piuttosto cercando altri tipi di elettrolita, in quanto quelli al vanadio, di gran lunga i più usati oggi, sono costosi.

Si stanno sperimentando vari elementi dotati di diversi stati di ossidazione, come ferro o manganese, e tutti potranno usare il nostro elettrodo. Ma il vanadio resta il re, perché ha le migliori caratteristiche chimiche. Il costo dell’elettrolita al vanadio è in realtà un falso problema: questo componente è praticamente eterno, anche dopo 20 anni di uso lo si può tranquillamente riversare in una nuova batteria e funzionerà come fosse nuovo, non si degrada. Quindi, anche se il 50% del costo di una batteria a flusso al vanadio è oggi rappresentato dall’elettrolita, il suo contributo al costo di accumulo, nei molti decenni di funzionamento dell’impianto, va a diluirsi fin quasi a zero. Diverso il caso degli elettrodi, che non solo non sono eterni, ma nelle forme attuali penalizzano costi e prestazioni dell’impianto: sono loro la chiave del miglioramento delle batterie a flusso per farle diventare competitive con quelle al litio.

Cosa che finora non si è avverata. Nel mondo ci sono pochissimi grandi impianti di accumulo basati sulle batterie a flusso, in Italia nessuno.

Questo è al momento vero, ma tutti riconoscono l’enorme potenziale di questa tecnologia, che ha una durata di vita molte volte maggiore di quella al litio, può aumentare la capacità semplicemente aumentando i serbatoi di elettrolita e può essere usata per l’accumulo di lunga durata.

Avrà pure degli svantaggi, altrimenti non si capisce perché il litio stravinca, forse il vanadio è un elemento raro e costoso?

No, pochi lo sanno, ma è il sesto metallo più comune sulla Terra, 10 volte più abbondante del litio e molto più di nickel, rame e cobalto. Fra l’altro si estrae dagli scarti dell’industria petrolifera, dalle scorie delle acciaierie e delle miniere di uranio. Può costare caro, ma è soggetto a grandi sbalzi di valore; attualmente è ai suoi minimi storici, perché ha poche applicazioni e pochi impianti che lo producono, non certo perché raro. Il costo delle batterie a flusso, come si diceva, andrà a calare di molto con i nostri elettrodi nanometrici, mentre resta il loro svantaggio rispetto alle batterie al litio di occupare molto più spazio, avendo una capacità per volume che è circa un decimo. Però i loro container si possono anche raggruppare e impilare, non essendo soggetti a incendi, mentre quelli delle batterie al litio vanno tenuti molto distanziati.

Quindi il vostro elettrodo potrebbe dare una notevole spinta a questa tecnologia? E come procederete nel suo sviluppo?

Con il milione di euro della CDP passeremo dai piccoli elettrodi di laboratorio, ad altri di 600 centimetri quadri, con cui far funzionare vere batterie a flusso, dimostrando così entro il 2025 che la tecnologia dà grandi vantaggi anche in scala commerciale. Nel 2026 vorremmo passare alla fase produttiva, attrezzando una fabbrica a sud di Milano e cominciando a sfornare elettrodi su richiesta.

Ci sarà domanda?

L’interesse che hanno dimostrato i produttori di batterie a flusso e dei loro componenti verso i nostri risultati è tale che direi proprio di sì. E speriamo che, insieme al produrre elettrodi, si possa lanciare l’uso delle batterie a flusso nel nostro paese, a cui credo sarebbero molto utili, anche perché, per la loro semplicità, potremmo anche produrcele in casa.

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