Negli Stati Uniti è in discussione un disegno di legge che mira a smantellare buona parte degli incentivi fiscali per le energie rinnovabili introdotti dall’Inflation Reduction Act (IRA) della precedente amministrazione Biden.
Ieri, 22 maggio, la proposta è passata alla Camera dei rappresentanti, per un solo voto: 215 sì, 214 no, dei quali due repubblicani che si sono opposti e atri due che si sono astenuti.
Il disegno di legge fiscale è ora diretto al Senato, dove potrebbe essere ulteriormente modificato prima di essere nuovamente votato.
Il pacchetto, elaborato dalla commissione Ways and Means della Camera, denominato “One big beautiful bill” e sostenuto dal presidente Donald Trump, prevede l’eliminazione o il drastico ridimensionamento di crediti fiscali fondamentali per il rimpatrio manifatturiero, la produzione e l’installazione di tecnologie pulite.
A farne le spese sarebbero fotovoltaico, storage, veicoli elettrici, pompe di calore, idrogeno verde e le catene di fornitura legate alla produzione industriale nazionale.
Il piano farebbe risparmiare all’erario Usa più di 560 miliardi di dollari in crediti d’imposta per l’energia in 10 anni, secondo una stima ufficiale non di parte del Congresso, mentre i costi energetici per le famiglie statunitensi aumenterebbero fino del 7% nel 2035, secondo un’analisi preliminare del Rhodium Group.
Nell’illustrazione di Bloomberg, una suddivisione dei tagli proposti ai crediti d’imposta per comparto.
La questione delle “entità estere di interesse”
Il piano include anche nuove regole sulle “entità estere di interesse” (foreign entities of concern), che escluderebbero dai benefici fiscali tutti i progetti che coinvolgano, anche indirettamente, aziende legate alla Cina.
Secondo molti osservatori, la definizione è così ampia da colpire praticamente ogni impianto o fabbrica oggi in fase di sviluppo, vista la presenza preponderante della Cina in tutte le filiere manifatturiere del settore rinnovabili, sia in termini di macchine utensili per la creazione di linee di produzione che di materie prime, componenti e prodotti finiti del settore verde.
Senza ulteriori chiarimenti normativi da parte del Tesoro Usa, le aziende non sapranno come dimostrare la propria conformità, rendendo impossibile l’accesso ai crediti e bloccando nuovi investimenti.
In parallelo, i dazi doganali sui componenti cinesi rischiano di tornare a livelli punitivi, fino al 156% su celle e moduli per batterie. Nonostante una tregua temporanea abbia riportato i dazi al 30% per 90 giorni, gli sviluppatori segnalano un clima di totale incertezza.
La combinazione di ostacoli fiscali e doganali rischia di interrompere la crescita di comparti strategici come fotovoltaico, batterie e reti intelligenti (Tsunami Trump: energia tra dazi, carbone e caos globale e I dazi di Trump, una scossa globale al settore energetico).
SEIA lancia l’allarme: a rischio fabbriche e forniture elettriche
L’impatto del disegno di legge (pdf) sarebbe devastante per il tessuto industriale americano, secondo la Solar Energy Industries Association (SEIA).
L’associazione stima che senza modifiche adeguate si metterebbero a rischio 300 fabbriche di fotovoltaico e di storage, con la perdita di 300mila posti di lavoro, di cui 86.000 solo nella manifattura FV.
Le conseguenze non sarebbero solo occupazionali, ma anche sistemiche: entro il 2030 si perderebbero 145 TWh di generazione FV, più dell’intero consumo annuo di elettricità della Pennsylvania.
Il taglio previsto del credito fiscale residenziale aggraverebbe la situazione per le famiglie, privandole di uno strumento importante per facilitare l’installazione di impianti fotovoltaici domestici. Allo stesso tempo, anche la fine della trasferibilità dei crediti, di cui sappiamo qualcosa anche qui in Italia, renderebbe più difficile avviare nuovi progetti, anche di larga scala.
Tutto questo in un contesto in cui la domanda di elettricità è in aumento, spinta dai centri dati e dalla crescente elettrificazione dei consumi.
SEIA e le imprese del settore chiedono modifiche urgenti, temendo uno scenario di carenza strutturale di energia entro pochi anni. Senza un’adeguata capacità fotovoltaica e di accumulo, ammoniscono, gli Usa non saranno in grado di coprire i nuovi fabbisogni, con conseguenti aumenti dei prezzi e possibili blackout localizzati.
Sul fronte della mobilità elettrica, l’abrogazione prevista del credito da 7.500 dollari dopo il 31 dicembre 2025 renderà i veicoli a batteria più costosi, soprattutto nei segmenti bassi e medi. Mentre alcuni modelli come Tesla Model 3 e Y hanno raggiunto la parità di prezzo con le auto tradizionali, la maggior parte dei produttori dipende ancora dagli incentivi per contenere i costi. Senza il supporto federale, il divario di prezzo aumenterà, rallentando la diffusione dei veicoli elettrici fuori dai segmenti premium.
Storage minacciato da incertezze e dazi
Il comparto delle batterie per la rete è tra i più colpiti dal nuovo clima politico.
L’American Clean Power Association (ACP) ha stimato che fino a pochi mesi fa gli investimenti annunciati nel settore avrebbero potuto raggiungere 100 miliardi di dollari entro il 2030, coprendo integralmente la domanda interna. Oggi, quella prospettiva è messa a rischio da dazi, incertezza normativa e il possibile smantellamento del Loan Program Office del Dipartimento dell’Energia.
I dati dell’Energy Information Administration (EIA) mostravano una previsione di 18 GW di nuove installazioni di storage per il 2025. Ma secondo la società di ricerche Wood Mackenzie e la stessa ACP, il dato è già stato rivisto al ribasso: si stima che la nuova capacità sarà solo poco più di 13 GW. Il motivo principale è l’aumento dei costi legato ai dazi sulle celle e componenti dalla Cina, che nel 2024 coprivano circa il 70% del mercato statunitense.
Per almeno i prossimi 5-7 anni, non esiste un’alternativa economicamente sostenibile allo storage a batteria per soddisfare la domanda interna, ha sottolineato David Fernandes di OnEnergy. I dazi, quindi, non faranno altro che rendere le batterie più care, aumentando indirettamente anche il costo dell’energia per i consumatori.
Anche l’efficienza energetica nel mirino
La strategia dell’amministrazione Trump colpisce anche l’efficienza energetica, una delle misure più efficaci per ridurre i consumi e abbattere le bollette.
La proposta di bilancio in discussione al Congresso prevede l’eliminazione del programma Energy Star, attivo dal 1992, che ha permesso di risparmiare oltre 500 miliardi di dollari e di evitare 4 miliardi di tonnellate di CO2. Il programma è utilizzato per certificare elettrodomestici, sistemi di climatizzazione, caldaie e anche centri dati.
Oltre a Energy Star, L’amministrazione Trump ha smantellato anche il programma LIHEAP, destinato ad aiutare le famiglie a basso reddito a pagare le bollette e nella realizzazione di interventi di efficientamento domestico. Il licenziamento di tutto lo staff e il mancato rifinanziamento mettono a rischio milioni di famiglie, in particolare in vista di un’estate con temperature previste sopra la media.
Infine, sono state revocate alcune regole minime di efficienza per nuovi elettrodomestici, e bloccati standard edilizi già approvati. Secondo il think tank ACEEE, si tratta di una strategia miope che contraddice gli stessi obiettivi dichiarati dell’amministrazione in tema di contenimento dei costi energetici.
Biocarburanti e CCS: i vincitori della riforma fiscale
Nonostante i tagli generalizzati alle rinnovabili, la riforma fiscale targata Trump, che prevede fra l’altro l’estensione permanente dei tagli fiscali del 2017, conferma il sostegno a biocarburanti e cattura e stoccaggio del carbonio (CCS). I relativi crediti sono stati estesi fino al 2031, rafforzando il ruolo di queste tecnologie nei piani energetici del Partito Repubblicano.
Il credito per i carburanti puliti è stato reso più accessibile, favorendo etanolo, biodiesel e carburante sostenibile per l’aviazione (SAF), soprattutto negli stati agricoli, mentre il credito per la cattura della CO2 continua a incentivare progetti legati all’industria fossile.
Queste tecnologie permettono di mantenere attive le infrastrutture esistenti, garantendo ritorni economici e consenso politico in aree strategiche. Si tratta cioè di applicazioni compatibili con gli interessi dei settori agricoltura, gas e petrolio, e in grado di raccogliere consenso bipartisan in Congresso.
Un caso emblematico di resistenza e compromesso sull’eolico
Il progetto Empire Wind 1, sviluppato dalla norvegese Equinor al largo di New York, è diventato il simbolo delle tensioni tra il governo federale e il settore delle rinnovabili. È forse anche l’esempio delle condizioni che gli operatori delle rinnovabili dovranno cercare di creare, per contrastare l’amministrazione Trump.
A metà aprile, due settimane dopo l’inizio dei lavori in mare, il Dipartimento dell’Interno ha emesso un ordine di sospensione, giustificato da presunte lacune nelle autorizzazioni ambientali. Il blocco ha causato ritardi significativi e perdite economiche per decine di milioni a settimana, mettendo a rischio l’intero progetto.
Empire Wind 1 è il primo impianto eolico marino a iniziare la costruzione offshore sotto l’amministrazione Trump. Con 54 turbine per 810 MW, alimenterà 500mila case e sarà il primo progetto a connettersi direttamente alla rete elettrica di New York City. La sua importanza è doppia: garantisce capacità rinnovabile alla rete urbana e rappresenta un pilastro per la crescita economica di South Brooklyn, dove è in costruzione un terminale portuale di quasi 30 ettari.
Dopo settimane di pressioni da parte di sindacati, autorità statali, diplomazia norvegese e membri del Congresso come Chuck Schumer, l’ordine è stato revocato il 19 maggio. Secondo Equinor, l’impianto tornerà operativo a breve e resterà in linea con l’obiettivo di entrare in funzione nel 2027.
Equinor, dopo aver rischiato di mettere a bilancio perdite miliardarie a cause del blocco, potrebbe ora riuscire a spuntarla. Ma il caso ha evidenziato plasticamente quanto sia fragile la pianificazione industriale sotto un’amministrazione ostile alle rinnovabili.
Dissensi interni al Partito Repubblicano e spiragli negoziali
Nonostante la spinta della sua leadership, all’interno del Partito Repubblicano, noto anche come Grand Old Party (GOP), crescono i segnali di dissenso.
Dodici deputati, guidati da Jen Kiggans della Virginia, hanno proposto tre emendamenti al disegno di legge fiscale: prolungamento della trasferibilità dei crediti fino al 2031, tempi più lunghi per adeguare le catene di fornitura alle restrizioni sulle entità estere e chiarimenti normativi per evitare incertezze negli investimenti.
Oltre venti parlamentari del GOP hanno firmato anche una lettera in marzo per opporsi ai tagli più drastici previsti dal disegno di legge fiscale. Molti di loro rappresentano distretti dove sono nate, grazie ai crediti IRA, nuove fabbriche e migliaia di posti di lavoro. Alcuni osservatori, tra cui SEIA e ACP, sperano che proprio questi interessi locali possano fare da leva per giungere ad un compromesso.
Il Senato avrà ora la possibilità di intervenire per modificare il testo della riforma fiscale americana voluta da Trump. La pressione di imprese, sindacati e governi locali sarà decisiva. Repubblicani moderati hanno indicato di voler attutire il colpo per le tecnologie verdi.
Paradossalmente, l’interruzione dei crediti d’imposta mette a rischio i recenti progressi nel settore fotovoltaico, delle batterie e della produzione di componenti di rete, esponendo nuovamente gli Stati Uniti alla dipendenza dalle importazioni e alla perdita di posti di lavoro in settori chiave per la crescita non solo delle tecnologie pulite, ma degli Usa in generale.