L’eclissi … dei pompaggi idroelettrici

Il sistema elettrico italiano avrebbe un'arma incredibilmente efficace sia per affrontare situazioni particolari come la recente eclissi che per gestire la produzione non programmabile di fotovoltaico ed eolico: 8 GW di pompaggi idroelettrici. Questi sistemi di accumulo però non sono mai stati usati così poco come oggi. Vi spiegamo perché.

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L’eclissi del 20 marzo sembra aver gettato Terna nel panico: davanti a un evento prevedibile nei minimi dettagli, il regolatore di rete, a differenza dei suoi colleghi europei, ha reagito prima annunciando la chiusura per 24 ore di tutto il fotovoltaico ed eolico italiano in media tensione, per poi ripensarci e ripiegare su misure meno estreme. Questa situazione si sarebbe potuta evitare se l’Italia disponesse di sistemi di accumulo dell’energia, in grado di assorbire e rilasciare velocemente molti GWh di energia. Quanto ci servirebbe averli! Eppure, noi, questi sistemi ce li abbiamo già, e in una quantità fra le più elevate del mondo!

Stiamo parlando dei sistemi di accumulo a pompaggio idroelettrico che funzionano in modo semplicissimo ed efficiente, spostando acqua fra due bacini idrici a livello diverso. Quelli italiani sono in grado di assorbire o rilasciare a richiesta quasi 8 GW di elettricità (più o meno quanto serviva nel caso dell’eclissi) con la massima prontezza, in modo economico e con una discreta efficienza, fornendo una regolazione annuale che può superare gli 8 TWh: circa una settimana di consumi italiani.

Peccato che siano privati e non a completa disposizione del gestore di rete, per casi eccezionali come quello dell’eclissi, certo, ma anche per rendere più facile la transizione a un sistema energetico basato sulle rinnovabili.

Si pensava, infatti, che l’accumulo idroelettrico – nato nel dopoguerra per aiutare la regolazione della rete, a fronte del crescente apporto da parte di centrali termiche e nucleari troppo “rigide” per seguire la domanda giornaliera – sarebbe stato utilissimo in questi ultimi anni per assorbire gli eccessi di produzione di sole e vento, rilasciandoli poi nelle ore in cui queste fonti venivano a mancare. Invece, curiosamente, il boom delle nuove rinnovabili, è coinciso con un progressivo abbandono dell’uso dei sistemi di pompaggio.

Lo conferma una relazione di Daniele Forni, responsabile tecnico della FIRE (Federazione Italiana per l’uso Razionale dell’Energia), apparsa sulla newsletter n.5/2015 dell’associazione (allegato in basso). Forni ha analizzato l’uso dei pompaggi durante il 2013 e 2014, scoprendo che ormai li si usa tanto quanto negli anni ’70: meno di 2 TWh annui, contro gli 8 TWh del record del 2002. E questo, nonostante nel frattempo l’aggiunta di nuovi bacini di accumulo abbia fatto salire la potenza complessiva a 7,7 GW.

Se nel 2002 un impianto medio di pompaggio lavorava 1100 ore l’anno, nel 2014 il numero di ore era sceso a 250, con l’uso minimo, 200 ore, proprio dove si trova il 70% della potenza di pompaggio, al Nord, e l’uso maggiore dove ce n’è sono meno, nelle isole e al Sud, con 500 e 400 ore annue rispettivamente.

Interessante notare che, mentre nei primi anni 2000 lo schema tipico di uso degli impianti di pompaggio era l’acquisto di elettricità durante la notte, per rilasciarla poi nelle ore di punta diurne, oggi il picco orario di uso nei giorni non invernali è fra le 13 e le 16 (fra ottobre e gennaio il picco torna notturno), con il 40% dell’accumulo che avviene nel fine settimana.

«Premetto subito che interpretare questi dati è difficile – ci spiega Forni – perché nell’uso dei pompaggi intervengono molti fattori, economici, tecnici, di regolazione della rete. Comunque, nei primi anni del XXI secolo, di fronte a una situazione di carenza di produzione elettrica, i pompaggi svolgevano una funzione di compensazione dei picchi di consumo, assorbendo l’economica energia notturna e festiva e rivendendola, con un buon profitto, a metà mattinata quando le centrali facevano fatica a soddisfare la domanda. Oggi con l’overcapacity e la crisi economica, la situazione si è capovolta: le tante nuove e flessibili centrali a gas a ciclo combinato sono in grado di seguire quasi ogni variazione della domanda, e i pompaggi restano disoccupati.»

Certo, non è proprio il lavoro delle centrali a gas variare continuamente di potenza per seguire il carico della rete, e farlo probabilmente peggiora la loro efficienza e ne aumenta l’usura. Ma visto che i sistemi di pompaggio sono degli stessi proprietari, Enel in testa, di queste nuove e ancora da ammortizzare centrali è probabile che, di fronte all’attuale penuria di domanda “normale”, si preferisca far lavorare loro per il bilanciamento della rete, che è anche meglio remunerato, piuttosto che i più adatti, ma ormai ammortizzati, pompaggi. Enel, interpellata, non ha voluto rispondere alle nostre domande su questa questione.

Ma la presenza delle rinnovabili intermittenti non dovrebbe riportare in auge l’accumulo idroelettrico? «In teoria sì, sarebbe il modo più razionale per compensarne le variazioni – spiega Forni – anche perché, contrariamente a quello che si pensa di solito, non è vero che i pompaggi siano lontani dalle rinnovabili: il 70% è sistemato lungo le Alpi, quindi vicino ai tanti GW di solare installati in pianura Padana. E in effetti i sistemi di pompaggio assorbono già parte dell’eccesso di produzione solare, visto che i tempi del loro maggiore impiego coincidono quasi sempre con il picco del fotovoltaico, soprattutto quando, nei fine settimana, cala la domanda. Ma bisogna anche considerare che proprio l’arrivo delle rinnovabili intermittenti, ha portato a un livellamento dei prezzi durante la giornata, facendo per esempio sparire il picco diurno. Visto che il pompaggio fa perdere circa il 20-25% dell’energia accumulata, se la differenza di prezzo fra momento di accumulo e rilascio è troppo bassa, sparisce il vantaggio economico nell’utilizzo. Ecco un’altra ragione perché si usano meno di quanto si potrebbe.»

Questa quindi la situazione attuale, ma tutto potrebbe cambiare in futuro, quando, per esempio con la dismissione di sovracapacità produttiva da parte delle utility (solo Enel dovrebbe chiudere 11 GW di centrali), i pompaggi potrebbero riprendere il ruolo che avevano a inizio secolo nella regolazione della rete e, anzi, diventare sempre più importanti, permettendo l’afflusso nel sistema elettrico di quantità via via maggiori di elettricità rinnovabile intermittente, molto al di là di quella che consentirebbe la sola regolazione con centrali termiche.

E l’Italia, per quanto riguarda l’accumulo idroelettrico, è eccezionalmente favorita, data la presenza ovunque di bacini a livello diverso, ma anche di 8000 chilometri di coste, spesso sormontate da alture che possono ospitare invasi artificiali (accuratamente impermeabilizzati per evitare infiltrazioni di sale nel terreno), in cui pompare acqua marina.

Per averne un’idea precisa è utile leggere un rapporto del 2012 (allegato in basso), redatto dai ricercatore dell’RSE (l’ente di ricerca del GSE) Antonella Frigerio, Massimo Meghella e Giuseppe Bruno. In questo studio, oltre a ribadire le ragioni per cui sarebbe opportuno “riscoprire i pompaggi”, si utilizzano anche dati sui bacini idrici utilizzabili a scopo di accumulo, per dimostrare l’enorme potenziale di questa risorsa nel nostro Paese.

Gli autori individuano, fra i tanti possibili, otto nuovi siti per impianti di pompaggio fra laghi già esistenti e quattro per il pompaggio di acqua marina, ottenendo altri 3 GW di potenza e 9 TWh di capacità di accumulo distribuiti un po’ in tutta Italia. Sommate a quelle già esistenti, sarebbero più che sufficienti per le necessità di bilanciamento della produzione di sole e vento prevista per i prossimi decenni.

«Ma certo – conclude Forni – bisognerà ripensare le regole del gioco, così che i pompaggi, insieme a smart grid, accumuli termici, carichi interrompibili, eccetera. concorrano a garantire il funzionamento regolare ed economicamente efficiente della rete.»

La newsletter Fire con i dati sull’uso dei pompaggi (pdf)

Lo studio RSE sul potenziale dei pompaggi

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