Gli impatti ambientali delle diverse geotermie

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Numerosi sono i modi di utilizzare l’energia del calore immagazzinato nella crosta terrestre e diversi sono i rilasci di emissioni in atmosfera: geotermia di tipo flash, centrali binarie, a bassa entalpia, ecc.. Il dibattito, su questi impatti è ormai diventato anche politico.

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Pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia, n.3/2018

Si dice geotermia, bisognerebbe dire geotermie. Esistono numerosi modi per utilizzare l’energia rinnovabile del calore immagazzinato nella crosta terrestre.

L’Italia, fino a ora, ha sperimentato uno solo di questi modi: il peggiore, quello con un impatto ambientale elevato.

Oggi, le centrali geotermiche italiane sono tutte in Toscana e tutte di tipo flash: per produrre energia elettrica estraggono fluidi geotermici a migliaia di metri di profondità e, prima di reiniettarne una parte, rilasciano nell’atmosfera i “gas incondensabili” che contengono.

I “gas incondensabili” comprendono numerose sostanze dannose per la salute e per l’ambiente. Nelle centrali geotermiche italiane sono installati sistemi di abbattimento solo per mercurio e idrogeno solforato, talvolta anche per l’ammoniaca: ma abbattere non significa eliminare.

Le unità di misura più appropriate per esprimere le sostanze emesse nel corso di un anno dalle centrali geotermiche italiane sono le decine di migliaia di tonnellate: i dati più recenti in certificati dall’Arpat risalgono al 2007.

Per gli anni successivi sono disponibili solo i dati puntuali relativi al flusso delle emissioni – che varia nel tempo – registrato durante i controlli, annuali o biennali.

Oltre a ciò le centrali geotermiche in Toscana emettono grandi quantità di CO2 e metano, i due principali gas serra.

Il calcolo è disponibile solo per le centrali geotermiche del Monte Amiata (M. Bravi, R. Basosi, “Environmental impact of electricity from selected geothermal power plants in Italy”, in Journal of Cleaner Production, 66, 2014, 301-308): le emissioni sono pari a 693 kg di anidride CO2eq per MWh e superiori a quelle di una centrale termoelettrica alimentata da fossili come il gas naturale. Il potenziale di acidificazione di queste emissioni è inoltre pari a 2,2 volte quello di una centrale termoelettrica a carbone (vedi anche su QualEnergia.it “La geotermia è una risorsa energetica utile alla riduzione delle emissioni di gas serra?“, ndr).

Tempi geologici

Senza l’intervento umano, l’anidride carbonica e il metano rimarrebbero sottoterra per tempi geologici.

È fuorviante affermare che le emissioni delle centrali geotermiche sostituiscono quelle naturali, si può semmai sostenere che il 12% delle emissioni di anidride carbonica delle centrali geotermiche toscane sostituisce quelle naturali (F. Frondini et al., “Carbon dioxide degassing and thermal energy release in the Monte Amiata volcanicgeothermal area (Italy)”, in Applied Geochemistry, 24, 5, 2009, 860-875) ma i dati relativi alle emissioni di anidride carbonica dal suolo sono stati raccolti dopo decenni di sfruttamento geotermico e un’ampia letteratura scientifica dimostra che lo sfruttamento geotermico può accrescere le emissioni di anidride carbonica dal suolo.

È assai opinabile, quindi, affermare che l’anidride carbonica delle emissioni è carbon free poiché non deriva dall’impiego di combustibili fossili. Eppure la pubblicistica apologetica che prospera attorno agli impianti tocca queste e altre ineffabili vette e le centrali geotermiche italiane beneficiano degli incentivi per le rinnovabili.

Ma le vere rinnovabili hanno un impatto minimo e durante la fase operativa non inquinano e non emettono gas serra. Finora l’Italia ha esplorato – e non percorso – una sola strada alternativa alle centrali geotermiche di tipo flash: le centrali binarie, che reimmettono integralmente i fluidi geotermici nel sottosuolo senza emissioni in atmosfera. Diversi progetti hanno intrapreso, ma non ancora concluso, l’iter per l’autorizzazione.

Tuttavia, nella situazione italiana, anche le centrali binarie, in alcuni casi potrebbero essere problematiche. C’è innanzitutto la questione dei “gas incondensabili”. Nel mondo, le centrali geotermiche binarie sfruttano fluidi con una percentuale di “gas incondensabili” pari al massimo all’1%, o poco più, per evitare problemi legati alla reiniezione.

In Italia i “gas incondensabili” superano quasi sempre questa soglia e arrivano anche al 10%. Enel, che gestisce tutte le inquinanti centrali flash italiane, sostiene che se fosse possibile realizzare in Italia impianti binari lo avrebbe già fatto. (https://bit.ly/2NMVDpn e https://bit.ly/2LH3irR).

Inoltre i progetti delle centrali geotermiche binarie depositati per la valutazione d’impatto ambientale non dissipano tutti i dubbi sull’assenza di emissioni.

Due esempi: la documentazione riguardante l’impianto di Lucignano dichiara che esso funzionerà per 8.000 ore l’anno (Relazione di progetto, tabella 2.2 pag. 28) ma in un anno ci sono 8.760 ore. Similmente, la documentazione relativa a Castelnuovo parla di una “disponibilità dell’impianto” pari al 92% (Quadro di riferimento progettuale”, tabella 14, pag. 81).

Le due centrali saranno prevedibilmente fuori servizio per circa 700 ore l’anno, pari a una trentina di giorni. Attualmente, le centrali geotermiche italiane, quando vanno fuori servizio, rilasciano tutti i fluidi geotermici in atmosfera, gas incondensabili compresi. I progetti non chiariscono come sarebbe evitata quest’eventualità.

Il progetto per la centrale binaria di Castel Giorgio ha un diverso aspetto critico. Durante la Via non sono stati né sollevati, neanche attraverso le osservazioni del pubblico, né analizzati, i problemi che scaturiscono da un saggio scientifico secondo il quale l’impianto attingerebbe da un serbatoio geotermico compartimentato (G. Vignaroli et al., “Structural compartimentalisation of a geothermal system, the Torre Alfina field (central Italy”, in “Tectonophysics”, 608, 2013, 482-498).

Se è così, non è garantita l’intercomunicabilità fra il punto di prelievo e il punto di reiniezione dei fluidi, che sono situati a vari chilometri di distanza: nel primo punto potrebbe crearsi un’enorme depressione nel secondo, una enorme pressione.

Tutto ciò non significa voltare le spalle alla geotermia. Significa che, fra i vari tipi di geotermie, è necessario scegliere la geotermia fatta bene. Quella con il minimo impatto ambientale.

Tecnologie diverse

L’esempio più noto sono le pompe di calore geotermiche, utili per riscaldare gli ambienti d’inverno e rinfrescarli d’estate senza bisogno di trivellare pozzi e di estrarre fluidi.

Esiste anche la geotermia fatta bene che produce energia elettrica attraverso gli scambiatori in pozzo, che – senza prelevare i fluidi geotermici dal sottosuolo – ne estraggono soltanto il calore e lo impiegano per produrre vapore acqueo e far girare la turbina.

Attraverso gli scambiatori in pozzo è possibile utilizzare risorse geotermiche con temperature inferiori ai 100 °C, che sono assai più diffuse nel nostro Paese rispetto a quelle ad alta temperatura tradizionali: a seconda della situazione, si può far girare la turbina cedendo il calore geotermico a un fluido con un basso punto di evaporazione o si può fornire un “supplemento di calore” tramite altra energia rinnovabile, come quella prodotta da un impianto solare a concentrazione.

Possiamo anche pensare a una geotermia elettrica fatta bene senza bisogno di trivellare i pozzi. Si tratta di riciclare, grazie agli scambiatori in pozzo, i pozzi sterili o esausti che furono realizzati per estrarre petrolio o gas. Sono numerosi anche in Italia e spesso in fondo c’è acqua calda. In Polonia ci stanno provando. Si tratta di provarci anche da noi.

Articolo pubblicato originariamente sulla rivista QualEnergia, n.3/2018, con il titolo “Geotermie assortite”

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