Anche gli azionisti di BP chiedono di agire per il clima

Approvata con il 99% dei voti la proposta di Climate Action 100+ per allineare la strategia industriale agli accordi di Parigi, ma è ancora presto per cantare vittoria. Vediamo perché.

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Eppur qualcosa si muove nel granitico mondo di Big Oil, le multinazionali del petrolio che continuano massicciamente a investire in nuovi giacimenti per estrarre gas e oro nero.

Nell’assemblea annuale degli azionisti che si è svolta ieri (21 maggio) ad Aberdeen, in Scozia, il colosso energetico inglese BP ha approvato con il 99% dei voti la risoluzione proposta da Climate Action 100+ (allegata in basso), l’iniziativa globale che cerca di coinvolgere le grandi aziende negli impegni di riduzione delle emissioni inquinanti, facendo pressione con i suoi gruppi di azionisti.

La risoluzione, in particolare, chiede alla società di allineare la sua strategia industriale ai traguardi climatici fissati dagli accordi di Parigi, quindi in sostanza di pianificare i futuri investimenti considerando l’impegno di limitare il surriscaldamento globale sotto 2 gradi centigradi entro la fine del secolo.

E poi chiede di divulgare una serie di dati e informazioni, tra cui le stime sull’intensità di carbonio (carbon intensity) dei suoi prodotti energetici e gli obiettivi per diminuire le emissioni di gas-serra correlate alle sue attività in tutto il mondo (operational greenhouse gas emissions).

La corretta divulgazione dei dati economici, evidenzia anche Carbon Tracker in un recente documento, è un passo fondamentale per eliminare il greenwashing dalle imprese del settore oil & gas, imprese che molto spesso affermano di supportare le campagne contro i cambiamenti climatici ma senza smettere di finanziare la messa in produzione di nuove fonti energetiche fossili.

Esponendosi così al rischio crescente di stranded asset: risorse divenute inutili, sottoutilizzate, troppo costose da mantenere/sviluppare, perché messe in crisi dalla concorrenza delle tecnologie rinnovabili e da regole ambientali più severe; pensiamo, ad esempio, ai piani di molti paesi europei per uscire dal carbone, così come al previsto boom della mobilità elettrica con la conseguente minore domanda futura di carburanti tradizionali nei trasporti.

Il punto, evidenzia un recente studio di Global Witness, è che la produzione attuale di gas e petrolio supera già il livello compatibile con una rapida riduzione delle emissioni di CO2; figuriamoci, quindi, se Big Oil investirà davvero quei cinquemila miliardi di dollari stimati da Global Witness per cercare altri idrocarburi nei prossimi decenni.

Tornando all’assemblea di BP, è stata invece respinta una seconda mozione presentata da un altro gruppo di pressione, l’olandese Follow This, che puntava a definire traguardi particolarmente ambiziosi per ridurre le emissioni complessive di CO2, anche quelle correlate all’utilizzo dei prodotti energetici BP nell’intero ciclo di vita dei prodotti stessi.

Il testo ha ottenuto meno del 9% di voti favorevoli; ricordiamo infine che Follow This ha già proposto risoluzioni analoghe ai vertici degli azionisti di altre compagnie energetiche, tra cui la norvegese Equinor (ex Statoil) e Shell, ottenendo i primi riscontri positivi da alcuni investitori.

Non mancano, insomma, i segnali di cambiamento e presa di coscienza del problema climatico, anche se il cammino per de-carbonizzare l’industria fossile resta molto lungo, oltre che pieno di contraddizioni tra quello che dicono e quello che realmente fanno le multinazionali.

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