Cosa cambierà, o non cambierà, per la politica energetica di Donald Trump negli Stati Uniti, dopo l’uscita di scena di Scott Pruitt?
Pruitt, fedelissimo di Trump, noto per essere amico dei lobbisti del petrolio e del carbone e molto scettico sulle responsabilità umane dei cambiamenti climatici, era stato nominato al vertice dell’EPA (Environmental Protection Agency), l’agenzia Usa di protezione ambientale, dalla quale ha appena dato le dimissioni.
In realtà, Pruitt ha lasciato l’incarico non tanto per le sue posizioni così radicali contro il surriscaldamento globale e le fonti rinnovabili, ma piuttosto per una serie di scandali personali che l’hanno coinvolto nei mesi passati (spese “pazze” e relazioni troppo evidenti con i rappresentanti delle grandi industrie americane).
L’ex numero uno dell’EPA aveva iniziato a smantellare o mettere in discussione molte delle misure pro-energie pulite, approvate dalla precedente amministrazione di Barack Obama, ad esempio le regole sulle emissioni delle auto ritenute “poco realistiche” da Pruitt e il Clean Power Plan che puntava ad abbattere l’inquinamento causato dalle centrali energetiche a carbone.
Inoltre, Pruitt ha sempre caldeggiato l’uscita americana dagli accordi di Parigi sul clima.
Tuttavia, a occupare il posto di Pruitt potrebbe essere il numero due dell’agenzia, Andrew Wheeler, anche lui noto per essere un ex lobbista del carbone e quindi sostenitore dei combustibili fossili.
Poco probabile, quindi, che ci sia un cambio di rotta nella strategia portata avanti finora dalla “nuova” EPA dell’era Trump, molto più interessata alle richieste delle lobby energetiche tradizionali che all’effettiva tutela dell’ambiente attraverso una riduzione delle emissioni.
