L’eccessivo export elettrico tedesco e l’impatto sulle emissioni

La Germania sta affossando la sua possibilità di rispettare gli accordi sulle emissioni «iper-esportando» elettricità. Pur di non diminuire l’output da lignite e carbone, ne esporta gli eccessi produttivi anche quando c’è abbondanza di solare ed eolico, danneggiando i vicini e innalzando la quantità di carbonio nel suo kWh. Quali soluzioni?

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Fino a pochi anni fa ogni articolo internazionale sulle energie rinnovabili non mancava di citare la Germania come “l’esempio da seguire”, soprattutto per il formidabile sforzo della Energiewende, la transizione energetica, che aveva portato il paese in pochi anni a installare, al 2017, 43 GW di potenza solare, quasi 58 di eolica e 7,4 a biomassa.

Poi, nell’ottobre 2017, un annuncio scioccante da parte del Ministero dell’Ambiente tedesco: la Germania non avrebbe rispettato il suo impegno di ridurre le emissioni di CO2 del 40%, rispetto al 1990, come stabilito dagli accordi europei 20-20-20, fermandosi forse a un -33%.

Ma come, neanche quell’enorme sforzo di installazione di rinnovabili è bastato? Allora, come immediatamente sono saltati su a dire molti nuclearisti e oppositori delle rinnovabili, l’Energiewende è stata un fallimento? Sole, vento e biomasse non ce la fanno a disintossicarci dai combustibili fossili?

«In realtà ce l’avrebbero fatta benissimo a far rispettare il limiti di emissioni previsti al 2020 – dice Bruno Burger, ricercatore del Fraunhofer Institute per il solare – se solo il mio paese non fosse diventato dal 2011 in poi uno dei più grandi esportatori di elettricità del mondo».

In effetti, come ricordato recentemente anche da QualEnergia.it, nel 2017 la Germania ha toccato il nuovo record di export elettrico della sua storia, mandando all’estero 53 TWh, quasi il 10% della sua produzione totale. E nei primi tre mesi del 2018 ha già battuto il record dello stesso periodo del 2017, con 13,9 TWh esportati, contro 13,4 dell’anno prima.

Considerato che nel 2017 i tedeschi hanno prodotto 103 TWh con l’eolico, è come se avessero “rinunciato” alla metà della produzione di questa che è la più importante delle fonti a zero CO2 del paese: non c’è da meravigliarsi che non raggiungano i limiti di emissione previsti.

«In realtà ciò che veramente la Germania ha esportato è parte della sua produzione da carbone e lignite, che insieme coprono rispettivamente il 15 e il 24% della produzione elettrica tedesca», ci spiega l’economista Giacomo Ciapponi della società milanese di consulenze energetiche milanese Ref-E.

«La lignite è la fonte più economica in Germania, mentre il carbone è comunque meno costoso della generazione a gas, quindi tenere costantemente accese alla massima potenza possibile le centrali elettriche che usano queste fonti, anche quando c’è molto sole e vento, consente grossi guadagni per le compagnie che le possiedono».

In altre parole anche se l’elettricità da carbone finisce a prezzi di saldo nei paesi vicini, i proprietari delle centrali comunque ci guadagnano, soprattutto tenendo conto che le operazioni di salita e discesa della potenza, costano e usurano gli impianti.

Quando poi sul mercato c’è molta elettricità da rinnovabili, che fa crollare il prezzo del kWh sulla borsa tedesca, quello è proprio il momento migliore per svendere all’estero più elettricità possibile.

«Ci sono però anche motivi tecnici: la Germania ha una rete elettrica che fatica ad accogliere e gestire la notevole capacità di rinnovabili intermittenti installata. In particolare la produzione eolica è molto concentrata nel nord del paese, mentre il phase out del nucleare, che terminerà nel 2022, ha tolto e toglierà capacità di baseload localizzata nelle vicinanze delle aree di maggior consumo del sud», ci spiega Ciapponi.

«Già adesso – aggiunge l’economista – questa situazione crea problemi, come i cosiddetti “loop flows“, flussi di energia elettrica che escono dal nord della Germania verso i paesi confinanti, e poi vi rientrano a sud, e che si originano proprio per bypassare i vincoli della rete tedesca, creando problemi e costi ai sistemi elettrici limitrofi. In questa situazione si teme che ridurre la produzione da impianti baseload e programmabili, come quelli a lignite e carbone, possa creare ulteriori tensioni al sistema elettrico».

Gli Amici della Terra tedeschi, però, in un loro studio negano che chiudere gradualmente gli impianti a lignite, partendo dai più vecchi e inquinanti, porterebbe grossi problemi alla Germania, ed è innegabile che i paesi intorno alla Germania si stiano stufando dell’iper esportazione tedesca di elettricità a basso costo, che non solo usa la loro rete come una sorta di scorciatoia, ma mette anche in difficoltà i produttori locali di energia e peggiora i livelli di emissione di molti degli importatori, che, se usassero maggiormente il loro idroelettrico o le loro centrali a gas, invece dell’elettricità tedesca, genererebbero meno emissioni.

Per esempio, l’elettricità tedesca contiene 424 gr di CO2/kWh, mentre quella dei loro maggiori “clienti” ne ha molta meno: il kWh della Svizzera (che poi gira a noi l’elettricità tedesca), contiene appena 29 gr di CO2, l’austriaco è a 60, il danese a 166, il ceco a 375.

Solo dall’esportazione di elettricità tedesca in Olanda, 451 gr CO2/kWh, e, soprattutto, Polonia, 620 gr CO2/kWh, il clima ci guadagna.

«Il mancato rispetto del piano di contenimento della CO2 al 2020 porterà la Germania a pagare delle sanzioni. Tuttavia la prima causa del perché si permetta ai produttori a carbone di esportare così tanto è però di carattere politico», spiega Burger.

«Si vuole tutelare l’occupazione dei 20mila addetti all’estrazione della lignite in Germania, concentrata nell’este, la parte più povera del paese. Infatti, mentre molti paesi hanno già annunciato piani per uscire dal carbone, il governo tedesco ha rimandato a fine 2018 un primo rapporto sull’argomento. Peccato invece che gli addetti alle rinnovabili tedesche siano 150mila. Se si chiudessero le centrali a lignite questi lavoratori potrebbero facilmente essere riassorbiti dalla prevedibile espansione di quel settore».

Ma non esportare elettricità consentirebbe alla Germania di rispettare gli accordi 20-20-20?

«Certamente – dice Burger – e tornare all’equilibrio import-export di prima del 2011, tagliando l’eccesso di produzione da lignite e carbone, vorrebbe dire ridurre le emissioni tedesche di 60 milioni di tonnellate, circa il 6% del totale, colmando quasi interamente il gap previsto. Se poi si sostituisse interamente la produzione a lignite con quella a gas, le emissioni scenderebbero di altre 40 milioni di tonnellate, e così ci che avvicineremmo molto anche al limite del -45% di CO2 rispetto al 1990, fissato per il 2030».

Per provocare una rapida diminuzione della produzione a carbone e lignite in Germania, esisterebbe uno strumento molto semplice: una tassa sul carbonio.

«Oggi i certificati dell’ETS europeo costano circa 16 €/ton di CO2. Se si arrivasse a far pagare una tonnellata di CO2 emessa intorno ai 40 €, ecco che la lignite non sarebbe più conveniente del gas», dice Burger.

Ma questo non provocherebbe un aumento insostenibile del costo dell’elettricità, soprattutto per le famiglie tedesche, che con 0,33 €/ kWh, già pagano la tariffa più alta nell’Unione europea?

«Alcune simulazioni dicono che l’aumento sarebbe sopportabile, sia per l’industria, che oggi non paga gli incentivi alle rinnovabili, sia per le famiglie, perché per queste l’aumento nel costo industriale dell’elettricità, sarebbe compensato da una diminuzione nel costo degli incentivi alle rinnovabili, che scendono, se il costo medio dell’elettricità aumenta. E, naturalmente, con un prezzo medio più alto dell’elettricità, l’installazione di ulteriore potenza a fonti rinnovabili sarebbe conveniente anche senza incentivi o sovrapprezzi», conclude Burger.

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