Ripensare comportamenti e modello di sviluppo per vincere la sfida climatica

Nonostante le tecnologie low carbon a prezzi sempre più bassi stiano facilitando il processo di decarbonizzazione, è ormai sempre più evidente, come dimostrano anche gli ultimi dati sulle emissioni cinesi, che da sole non basteranno. Servono nuovi modelli di vita e di sviluppo.

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Dopo che, incredibilmente, le emissioni cinesi di CO2 si erano stabilizzate per tre anni, nel 2017 sono tornate a crescere del 2%.

E questo, malgrado un forte impulso allo sviluppo delle rinnovabili con ben 53 GW fotovoltaici, oltre metà della potenza solare installata lo scorso anno nel mondo. Ma questo incredibile balzo dell’elettricità verde è riuscito a coprire solo la metà dell’incremento del 6,7% della domanda elettrica.

C’era dunque grande attesa sull’ulteriore evoluzione delle emissioni. Ricordiamo infatti che al Cina rappresenta di gran lunga il primo produttore di CO2 del mondo (più di Usa ed Europa messe insieme) e che il successo delle strategie climatiche globali dipende molto dalle dinamiche delle emissioni cinesi (e in seconda battuta da quelle indiane).

I dati del primo trimestre 2018 pubblicati nei giorni scorsi hanno evidenziato un ulteriore forte incremento delle emissioni, con un +4% sullo stesso periodo dello scorso anno.

Naturalmente sono state proposte dettagliate analisi sulle cause di questa inversione del trend, a partire dalle misure di stimolo dell’economia nell’anno in cui si svolgeva il Congresso del Partito comunista, che hanno comportato un deciso impulso in settori industriali fortemente energivori che registravano una forte sottoutilizzazione degli impianti.

Questo segnale che viene dall’Oriente ci obbliga però a fare una riflessione più ampia sull’Accordo di Parigi e sulla possibilità di raggiungere i suoi ambiziosi obbiettivi.

Ricordiamo che tutti i paesi avevano in quella sede definito specifici impegni di contenimento delle emissioni, attraverso gli Intended Nationally Determined Contributions (INDCs).

Si è trattato di un passo avanti, certo, ma del tutto inadeguato rispetto alla sfida. Anche in presenza di questi sforzi, la temperatura nel corso di questo secolo aumenterebbe infatti di 3,5 °C, decisamente oltre la soglia dei 2 °C (o di 1,5 °C) indicata a Parigi.

Considerato che la Cina aveva promesso di raggiungere un picco delle emissioni entro il 2030, l’andamento degli ultimi anni sembrava anticipare di gran lunga gli impegni assunti.

Ma i nuovi dati fanno capire come, malgrado gli enormi sforzi avviati da Pechino, l’anticipo della stabilizzazione e della riduzione della produzione di anidride carbonica non sia così scontato. Un argomento in più per sollecitare un maggiore impegno da parte di tutti i paesi.

L’Europa, ad esempio, che si è proposta di ridurre del 40% le proprie emissioni al 2030 rispetto al 1990, potrebbe e dovrebbe tagliare i gas climalteranti almeno del 55%, come alcuni suggeriscono.

Ed è positivo il fatto che proprio in queste settimane si stiano concordando obbiettivi più elevati per efficienza e rinnovabili al 2030.

La necessità di alzare gli impegni per evitare un esito catastrofico dei cambiamenti climatici ci obbliga ad una considerazione più generale.

È vero che la recente irruzione sul mercato di una serie di tecnologie a prezzi sempre più bassi (dal fotovoltaico ai veicoli elettrici, dall’eolico ai Led) sta facilitando il processo di decarbonizzazione e il contenimento delle altre emergenze ambientali.

Appare però sempre più evidente che per avere successo e riuscire ad incidere nei prossimi decisivi 20-30 anni, le “disruptive technologiesda sole non basteranno, ma dovranno essere accompagnate da nuovi modelli di vita e di sviluppo. Una rivisitazione necessaria anche per affrontare le crescenti diseguaglianze sociali.

Parliamo di cambiamenti che incidono sulla nostra alimentazione, sulle modalità degli spostamenti, sul rapporto con i beni di consumo. Come pure sono destinati a svolgere un ruolo importante anche i modelli alternativi di produzione, le esperienze di sharing e di economia solidale.

La capacità di coniugare l’accelerazione delle tecnologie con il rallentamento dei ritmi, rappresenta in effetti una soluzione intrigante e potenzialmente molto efficace su diversi fronti.

Pensiamo per esempio alla sinergia tra una diffusione dei veicoli a guida autonoma in grado di ridurre il numero di auto e parcheggi e di facilitare un deciso aumento della mobilità ciclistica. O all’agroecologia esemplificata dalla fertirrigazione dei campi guidata dal GPS che utilizza il digestato di impianti a biogas consentendo di eliminare fertilizzanti chimici, garantire doppi raccolti, e aumentare la fertilità dei suoli.

Sono due rivoluzioni, quelle della mobilità e dell’agricoltura di precisione carbon-free, che mettono in discussione gli attuali approcci. Potremmo continuare con decine di esempi nei più diversi settori, per finire con una critica spietata e intelligente alla pubblicità, abbinata a forme di difesa nei confronti dell’attuale bombardamento che alimenta un consumismo senza freni.

Ma è lo stesso modello economico basato sulla necessità di una crescita costante per garantire occupazione, obbiettivo conseguito con sempre maggiore difficoltà, ad essere messo in discussione. Non per vagheggiare un’impossibile decrescita felice, ma per riorientare lo sviluppo verso soluzioni in grado di garantire benessere senza il feticcio della crescita ad ogni costo.

Una sfida ambiziosa che implica un profondo cambio culturale e la crescente connessione tra saperi e sensibilità diverse.

“Questo articolo è stato pubblicato sul nuovo sito www.connettere.org che intende stimolare l’interazione fra le discipline più diverse, contribuire alla ricerca di un linguaggio comune e uno scambio tra diversi ambiti di conoscenza, per  uscire dal nuovo analfabetismo, quello che non permette di avere una visione sistemica della realtà”.

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