Perché le utility sono sempre più minacciate dal rischio idrico

Nuovi dati del World Resources Institute mostrano che il 47% della capacità di generazione termoelettrica convenzionale si trova in aree affette da stress idrico causati da diversi motivi: siccità, competizione per gli usi dell’acqua, terreni aridi. Qualche osservazione sul "water risk", con un occhio puntato anche sull’Italia.

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Tra le diverse incognite che possono “pesare” sul futuro degli impianti convenzionali di generazione energetica – carbone, gas, nucleare, idroelettrico – la mancanza d’acqua è un rischio spesso sottovalutato che desta timori crescenti, come evidenziano i nuovi dati diffusi dal World Resources Institute (WRI) sullo stress idrico a livello globale.

La concorrenza dell’eolico e del fotovoltaico vs le fonti fossili fa riempire pagine di dati con i valori LCOE (Levelized cost of electricity) agli analisti delle “nuove” fonti rinnovabili, per dimostrare che l’elettricità generata con il vento e il sole spesso è più economica di quella prodotta con i combustibili tradizionali.

Di solito, allora, il carbon/climate risk balza in testa alle valutazioni sulla natura degli investimenti: il rischio associato alle emissioni inquinanti delle industrie, ai cambiamenti climatici e, quindi, alla possibilità che nei prossimi anni molte aziende perderanno profitti, perché non si saranno adattate ai cambiamenti imposti dalla transizione energetica “verde”. Per un approfondimento sul tema vedi anche QualEnergia.it: La transizione energetica secondo BP, tra greenwashing e schizofrenia

Secondo il WRI, l’acqua potrebbe diventare la principale minaccia per le risorse fossili e nucleari, poiché quasi metà (47%) della capacità mondiale di generazione termoelettrica si trova in aree geografiche affette da stress idrico, perché si verificano frequenti periodi con scarse precipitazioni o perché è in aumento la competizione per i diversi usi dell’acqua in agricoltura, nei processi industriali e per i consumi quotidiani delle persone.

La torta sotto riassume il quadro descritto dal WRI.

Tra l’altro, nella mappa interattiva che si può esplorare in un recente contributo sul blog del WRI, l’Italia in buona parte rientra in una zona rossa caratterizzata da uno stress idrico molto elevato (High/Extremely high nelle regioni del Sud); a tal proposito si veda anche il nostro articolo La scarsità di acqua mette sotto pressione il sistema energetico con alcune considerazioni sul caso italiano.

In uno studio precedente, l’istituto aveva illustrato gli impatti del rischio idrico sulle centrali elettriche, soprattutto quelle a carbone, in India.

Nel 2013-2016, la penuria d’acqua aveva costretto 14 delle maggiori venti utility indiane a interrompere le attività in qualche impianto, con perdite complessive stimate in quasi un miliardo e mezzo di dollari, per mancati guadagni dalla vendita di energia.

Siccità persistenti, osserva il WRI, possono minacciare anche quei paesi, come il Kenya e il Brasile, che dipendono ampiamente dai bacini idroelettrici per la produzione di energia, provocando blackout e facendo lievitare i prezzi del kWh.

Di conseguenza, è fondamentale includere il water risk nelle politiche energetiche-ambientali dei vari governi, in modo da pianificare gli investimenti in nuove infrastrutture.

Tuttavia, come hanno rimarcato gli esperti del WRI in un recente documento, per oltre il 40% degli impianti termoelettrici mancano dati attendibili sui consumi idrici complessivi dei sistemi di raffreddamento, che richiedono una notevole quantità d’acqua per funzionare correttamente.

Non a caso, reattori nucleari e centrali a gas/carbone si trovano solitamente vicino a delle fonti d’acqua dolce, come laghi o fiumi.

Per consultare più in dettaglio grafici e tabelle del WRI vedi anche QualEnergia.it: Quanta acqua consumano gli impianti a fonti fossili? Una mappa del rischio idrico

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