Dissalare l’acqua marina in modo sostenibile: tecnologie e fonti energetiche

Già nel 2030 il 47% della popolazione mondiale potrebbe avere problemi di scarsità di acqua. I grandi impianti di dissalazione hanno però impatti ambientali e notevoli consumi energetici. Ma si sta pensando a nuove tecnologie alimentate anche a fonti rinnovabili.

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Città del Capo sta per restare a secco: la seconda più grande città del Sudafrica, se non pioverà, e molto, entro i prossimi due mesi, ai primi di maggio dovrà fermare l’erogazione idrica, già ora limitata a 50 litri al giorno per ognuno dei suoi 3,5 milioni di abitanti.

Le ragioni sono varie e alcune dipendono dalla scarsa previdenza dell’amministrazione cittadina. Ma una delle principali cause è la siccità eccezionale che affligge l’Africa orientale e meridionale da diversi anni, un anticipo di quanto accadrà, per via del cambiamento climatico, in quella parte di mondo, che comprende anche l’area Mediterraneo, che vedrà ridursi in futuro le precipitazioni.

L’Italia ha assaggiato questo scenario proprio nel 2017, quando le riserve d’acqua nei bacini della penisola si sono dimezzate (e al Sud restano ancora basse in modo allarmante), mettendo a rischio l’approvvigionamento idrico non solo dell’agricoltura, ma anche di grandi città, come la stessa Roma.

Il 17 febbraio nella convention dell’associazione ambientalista Marevivo si è tenuto a Napoli un incontro per fare il punto su una delle possibili soluzione al problema della crescente carenza di acqua dolce nel mondo: la dissalazione di quella marina.

“Nel 2030, secondo lo Stockholm International Water Institute, circa il 47% della popolazione mondiale potrebbe avere problemi di scarsità di acqua. La dissalazione di acqua di mare potrebbe rappresentare una valida alternativa, come dimostra il caso di Israele, che già produce dal mare il 20% della sua acqua potabile, ma bisogna assicurarsi che gli impianti e i processi siano realizzati nel rispetto degli ecosistemi naturali”, hanno riassunto quelli di Marevivo.

Il problema ambientale a cui si riferiscono è quello dello scarico in mare della salamoia, residuo del processo di dissalazione: una soluzione ad alta concentrazione di sale, che, come ha rilevato Francesco Aliberti, professore di biologia alll’Università Federico II di Napoli può essere molto dannosa.

«Abbiamo analizzato lo stato della fauna e flora marina allo scarico della salamoia del dissalatore dell’isola di Lipari, il più grande d’Italia, constatando come nelle aree dove le concentrazioni saline superano la soglia di tossicità, si evidenzia una regressione della Posidonia, una pianta fondamentale per la stabilità dell’ambiente marino», ha spiegato Aliberti.

Si pensava che scaricare acqua salata in mare non comportasse conseguenze, e quindi non esistono normative per questo tipo di smaltimento, un gap che andrà presto affrontato se la dissalazione, come sembra, si diffonderà ben oltre l’attuale 1% dell’acqua potabile mondiale che produce.

Ma c’è un altro grave aspetto ambientale legato alla desalinizzazione: quello dei suoi alti consumi energetici. In tempi in cui per ridurre le emissioni di CO2 si tenta di diminuire i consumi di energia mettersi a “fabbricare” acqua dolce a colpi di GWh non sembra proprio l’ideale.

«In effetti le migliori tecnologie esistenti oggi richiedono circa 4 kWh di elettricità per ogni metro cubo di acqua prodotta», dice il professor di ingegneria ambientale Alberto Tiraferri, del Politecnico di Torino.

Nel caso di Città del Capo, per esempio, produrre dal mare i 500 milioni di litri di acqua che gli servono ogni giorno, richiederebbe 2 GWh di elettricità, cioè 700 GWh l’anno, più o meno quella consumata da 260mila famiglie italiane.

«Considerata la forte richiesta elettrica che richiedono, mi sembra difficile che gli attuali impianti di dissalazione su larga scala, si possano autoalimentare con fonti rinnovabili come il sole o il vento. Queste richiederebbero enormi superfici per provvedere alla fornitura elettrica dell’impianto, e comunque non sarebbero continue, a meno di non dotarle di sistemi di accumulo a batteria molto costosi. Vedo più semplice che si usi per i dissalatori, come per gli altri impianti industriali, l’energia di rete, in cui far entrare quote sempre maggiori di fonti rinnovabili», dice Tiraferri.

I dissalatori potrebbero però essi stessi costituire un modo per accumulare energia rinnovabile: nei momenti di eccesso di produzione da vento e sole, possono infatti produrre acqua dolce in sovrappiù, accumularla in serbatoi, per poi immetterla in rete, sospendendo la dissalazione, nei momenti in cui la produzione di energie rinnovabili è minore.

È un sistema in fase di studio per esempio in Arabia Saudita, dove già il 10% dei consumi elettrici va nella produzione di acqua dolce.

«Ma ci sarebbe un altro modo per integrare desalinizzazione ed energie rinnovabili: la distillazione con membrana», dice Lidietta Giorno direttrice dell’Istituto tecnologie delle membrane del Cnr.

«Mentre nell’osmosi inversa, la tecnologia oggi più usata, l’acqua di mare viene spinta attraverso membrane dissalanti da una pressione fino a 70-80 atmosfere, nella distillazione con membrana l’acqua di mare non viene compressa, ma scaldata a qualche decina di gradi, formando del vapore che, passa attraverso una apposita membrana, e si condensa nell’acqua dolce posta sull’altro lato. Questo sistema, ‘spreme’ ancora più acqua dolce da quella di mare, fino a lasciare solo i sali cristallizzati, che quindi, invece di essere scaricati in mare, sono essi stessi un prodotto vendibile».

«Un altro vantaggio – dice Tiraferri, che sta sperimentando la distillazione con membrana al Politecnico – è che l’acqua dolce così prodotta è molto più pura di quella da osmosi inversa e non richiede altri trattamenti, riducendo ulteriormente i consumi energetici. Ma la cosa più importante è che la distillazione con membrana non usa elettricità, ma calore a bassa temperatura, circa 70 °C, che può essere uno scarto di processi industriali, oppure il prodotto di solare termico o geotermia».

Insomma, se si riuscirà a superare i limiti della tecnologia, come la necessità di grande superficie per una speciale membrana idrofobica e la maggiore tendenza di questa a intasarsi con microrganismi, i futuri dissalatori potrebbero avere accanto centrali solari che producano l’acqua calda necessaria al loro funzionamento, una fonte energetica che è anche molto più facile da stoccare dell’elettricità.

«Vista la grande domanda futura di dissalazione, la distillazione con membrana non è però l’unica tecnologia innovativa in studio», ricorda Tiraferri.

«Si stanno sperimentando allo scopo anche nano tubi di carbonio, grafene, elettrolisi solare o soluzioni artificiali di sali che ‘succhiano’ l’acqua dolce da quella marina, e che si possano poi facilmente separare. Ma sono tutte soluzioni, per adesso, confinate ai primi stadi di laboratorio».

Quindi in futuro esisteranno impianti di dissalazione a basso consumo elettrico o addirittura alimentati con calore solare. Ma, viene da chiedersi, all’Italia serviranno?

«Al momento direi di no – dice Tiraferri – perché il nostro paese è molto ricco di acqua piovana, e prima di pensare ai dissalatori, la cui acqua costa circa 10 volte più di quella di falda, c’è molto lavoro da fare per rimettere in ordine il nostro sistema idrico, come le reti che perdono, in certe zone, anche la metà dell’acqua che trasportano. Intanto, però, continuiamo con la ricerca e la sperimentazione di tecnologie di dissalazione sempre più avanzate, così da essere pronti, se un domani le piogge diventassero insufficienti, a sfruttare anche la fonte marina. E si potrebbe già cominciare a dissalare per l’agricoltura le acque delle falde salmastre costiere, peraltro a costi più contenuti».

Un punto di vista condiviso anche da Lidietta Giorno.

«Già da ora si potrebbe, come in effetti si sta iniziando a fare, usare filtri e sistemi a membrana, per depurare le acque fognarie, recuperando grandi volumi di acqua dolce oggi gettati in mare. Ma visto che i climatologi ci dicono che al 2050 la piovosità media in Italia potrebbe calare anche del 7% rispetto a oggi, con rischi di desertificazione al sud, sarà opportuno cominciare ad investire anche in Italia nell’industria della dissalazione, a cui potremmo fornire il nostro know how, oltre che in altri parti del mondo. Sarebbe importante farlo anche per non trovarci poi al momento decisivo dal dover dipendere da altri per ottenere dal mare l’acqua da bere».

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