Accordo di Parigi: impegni ancora insufficienti, ma è l’impulso per uno sforzo comune

Una riflessione di Gianni Silvestrini sulla validità dell’accordo per il clima. Sebbene l’impegno internazionale sia ancora modesto, non possono essere ignorati alcuni segnali importanti che sono anche il frutto della decisione di porsi un limite sulle emissioni che si potranno ancora emettere.

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A volte mi imbatto in amici che ritengono sostanzialmente inutile l’Accordo di Parigi.

Critiche rafforzate dai dati preliminari del 2017 che indicano un incremento del 2% delle emissioni di CO2, un dato che interrompe la serie dei tre anni precedenti in cui si erano stabilizzate.

Dobbiamo essere soddisfatti dell’impegno internazionale sul clima? Certamente no, ad iniziare da casa nostra. E non parliamo della meteora Trump. Non vanno però ignorati alcuni segnali, figli dell’impegno comune.

Parliamo dei 19 paesi che hanno deciso di uscire dal carbone e dei cinque – Francia, Regno Unito, Norvegia, Olanda, India – che hanno indicato una data per la fine delle vendite delle auto a combustione interna (e degli altri sei che secondo la IEA ci stanno pensando).

Ci sono poi le città Usa che puntano all’obbiettivo “100% rinnovabili” e i paesi – dalla Cina alla California, dal Messico al Canada, – che hanno dato un prezzo al carbonio, in attesa che si riesca imporre una carbon tax globale.

Ma ci sono altri elementi che fanno riflettere sull’impatto che sta avendo l’Accordo sul Clima. A partire dalla crescente consapevolezza da parte di aziende e governi dell’alto livello di ambizione della sfida e della necessità di individuare nuovi strumenti e percorsi inesplorati. 

Parlare di scenari che consentano di soddisfare con le rinnovabili tutta la domanda elettrica sembra ormai un obbiettivo scontato, anche se non lo è affatto. Ancora meno scontate sono le riflessioni che stanno emergendo per affrontare temi complessi e ostici nel percorso di decarbonizzazione. Cito due esempi.

Un recente studio del JRC, centro di ricerche della Commissione europea, valutava le possibili evoluzioni al 2050 dei principali settori dell’industria chimica europea. A fronte di un aumento del 39% dei consumi energetici si stimava possibile ridurre del 15% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli attuali.

Uno sforzo importante, ma chiaramente insufficiente dopo Parigi. Significativamente, è stata però la stessa industria chimica ad elaborare lo scorso anno uno scenario molto più spinto che prevede il completo azzeramento delle emissioni climalteranti a metà secolo puntando non solo su un largo uso di elettricità rinnovabile, ma individuando nella CO2, nei gas di scarto industriali e nelle biomasse le materie da impiegare al posto degli idrocarburi.

Un secondo segnale interessante viene da un rapporto che analizza la possibilità di soddisfare tutta la domanda francese di metano nel 2050 con le rinnovabili. Nello scenario esaminato da Ademe Grdf e Grtgaz (l’Enea e la Snam francesi) i consumi di gas, che saranno ridotti di un terzo rispetto ai valori attuali, verrebbero coperti da un mix formato per il 30% dal biometano, per il 40% dalla pirogassificazione di legname e per il 30% dalla produzione di metano a partire dalla CO2 e dall’idrogeno generato da elettrolizzatori alimentati da rinnovabili.

Tornando alle tempistiche per raggiungere il picco delle emissioni, l’Accordo di Parigi prevede di iniziare a ridurle a partire dal 2020 ed è interessante osservare il numero di paesi che il picco l’hanno già raggiunto: erano 26 nel 2000 sono diventati 39 nel 2010. La Cina, che si era impegnata a ridurre la CO2 a partire dal 2030, potrebbe iniziare a tagliarle subito dopo il 2020.

Insomma, il mondo è in forte movimento. L’accelerazione, favorita dalla drastica riduzione dei prezzi delle “Disruptive Technologies”, dal fotovoltaico ai sistemi di accumulo, non è però sufficiente per garantire i drastici tagli coerenti con gli impegni di Parigi.

La sfida che si aspetta nei prossimi anni è talmente radicale che non bastano risposte “difensive”. Occorre ridiscutere l’attuale modello economico e riflettere sui cambiamenti da avviare per garantire una “prosperità senza crescita”. 

Un segnale interessante viene dalla breccia che si è aperta sul fronte degli economisti, con analisi come quelle di Tim Jackson a Kate Raworth volte ad aprire percorsi alternativi.

C’è da sperare che si inneschi la stessa evoluzione che si è registrata nel campo energetico. I ricercatori che trent’anni fa lavoravano sulle rinnovabili venivano considerati “eretici”, ma ora rappresentano il cuore del know how della trasformazione energetica.

Altrettanto dovrà avvenire nel mondo degli economisti con la messa in discussione della crescita del Pil come principale obbiettivo e con l’individuazione di modelli in grado di coniugare benessere, rispetto dei limiti ambientali e riduzione dell’uso delle risorse materiali e naturali.

“È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”, come dice saggiamente Papa Francesco.

Cosa c’entra Parigi con tutto questo? C’entra, perché per la prima volta l’umanità si è data un limite, i miliardi di tonnellate che si potranno ancora emettere. E proprio la consapevolezza e l’accettazione di questo limite potrà consentire l’avvio di trasformazioni radicali altrimenti assolutamente impensabili.

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