Perché geoingegneria e CCS non salveranno il Pianeta

Varie soluzioni promettono di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera e contribuire così alla riduzione del surriscaldamento globale. Ma un nuovo studio mostra che tagliare le emissioni è l'unica strada sicura.

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Le ultime indiscrezioni sull’esito della “corsa contro il tempo” per salvare il clima sono state piuttosto preoccupanti: entro la fine di questo secolo, si esaurirà il carbon budget che avrebbe consentito all’uomo di prevenire gli effetti più devastanti del surriscaldamento globale.

Difatti, stando alle bozze provvisorie del nuovo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo delle Nazioni Unite che studia l’evoluzione dei modelli climatici), il rischio di fallire gli obiettivi sanciti dagli accordi di Parigi nel 2015 è molto concreto.

Per capire il concetto di carbon budget pensiamo a un salvadanaio, che contiene tutta l’anidride carbonica che potremo ancora “spendere” (immettere nell’atmosfera) prima di raggiungere un eccessivo incremento delle temperature medie terrestri, causato dall’elevata concentrazione di gas-serra.

Le emissioni di CO2 però continuano a salire, quindi sarà sempre più difficile rispettare il limite di 1,5-2 gradi centigradi di aumento rispetto ai livelli preindustriali, limite che secondo gli scienziati dell’ONU dovrebbe evitare le conseguenze più gravi degli eventi climatici estremi, come la siccità, i tifoni e le ondate di calore (QualEnergia.it, Clima, IPCC: obiettivo 1,5 gradi sempre più fuori portata).

Così molti climatologi sono convinti che sia necessario sviluppare su vasta scala i sistemi identificati dall’acronimo inglese NET, cioè Negative emission technologies, che permettono di rimuovere la CO2 dall’atmosfera e stoccarla da qualche parte, ad esempio nelle piante, negli oceani, nel sottosuolo.

Lo scopo di queste tecnologie è ottenere il Santo Graal per chi crede di poter salvare il clima con la geoingegneria: un bilancio netto negativo di emissioni di gas-serra (Net-zero emissions), dove la quantità di CO2 complessivamente rilasciata nell’atmosfera è compensata da un’analoga quantità di anidride carbonica assorbita-eliminata.

Parliamo, nello specifico, di sei eventuali soluzioni: forestazione/riforestazione, gestione dei suoli per incrementare la loro capacità di trattenere il carbonio, bioenergie con sistemi CCS (BECCS, Bioenergy with carbon capture and storage), dispositivi DAC (Direct air capture) per “catturare” direttamente la CO2 dall’aria, fertilizzazione degli oceani, potenziamento di determinati processi geochimici (Enhanced weathering) che assorbono la CO2.

Tuttavia, affidarsi alle tecnologie per le emissioni negative può essere rischioso e fuorviante, come emerge dal rapporto appena pubblicato dal consiglio delle accademie scientifiche dei 28 Stati membri UE (EASAC, European Academies Science Advisory Council).

Nel documento, allegato in fondo all’articolo (Negative emission technologies: What role in meeting Paris Agreement targets?), si legge che il potenziale realistico delle soluzioni NET è limitato.

Queste ultime, infatti, “potrebbero avere un ruolo utile, ma stando alle informazioni disponibili, non al livello richiesto per compensare misure inadeguate di mitigazione”.

L’obiettivo prioritario, scrivono gli autori dello studio, dovrebbe essere la riduzione globale delle emissioni di CO2 attraverso l’efficienza energetica, l’utilizzo di fonti rinnovabili, la tutela degli ecosistemi che assorbono “naturalmente” la CO2, in primis le foreste, sfruttando in minima parte il possibile contributo delle tecnologie che promettono, spesso solo in via teorica, di rimuovere l’anidride carbonica.

La maggior parte delle ricerche in campo NET è ferma allo stadio dimostrativo o alle prove di laboratorio, pertanto non c’è alcuna garanzia sull’efficacia e durata dei risultati, come riassume la tabella seguente sui pro e contro per ciascuna soluzione.

Tra l’altro, evidenzia lo studio, molte tecnologie che in apparenza sono “neutrali” per quanto riguarda il bilancio del carbonio, in realtà presentano degli effetti collaterali che riducono i presunti vantaggi ambientali.

Tante incognite, ad esempio, circondano le bioenergie con applicazioni CCS: significa, semplificando al massimo il loro funzionamento, utilizzare le biomasse, legna e piante, come combustibile per produrre elettricità e calore e poi “sequestrare” la CO2 emessa dagli impianti.

Però le biomasse, nel loro ciclo di vita dalla coltivazione alla generazione di energia, in molti casi emettono molta più CO2 di quanto si può supporre inizialmente, perché bisogna calcolare anche l’impatto ecologico dei fertilizzanti chimici usati nelle coltivazioni intensive, del trasporto di legname, della competizione tra piantagioni energetiche/alimentari e del cambio d’uso dei suoli.

Inoltre, per realizzare impianti BECCS su scala commerciale, si dovrebbe contare su una tecnologia CCS affidabile e consolidata, ma l’industria è ancora molto lontana da questo traguardo, perché i sistemi di cattura della CO2 sono pochi nel mondo e molto costosi (QualEmergia.it, CCS, prima centrale commerciale, ma non è il caso di entusiasmarsi).

Convertire ampie porzioni di terra alle colture di biomasse per l’energia, in definitiva, può essere un autogol per il clima (vedi anche Emissioni negative e CCS, una controversa ricetta contro il global warming).

Allo stesso modo, prima di piantare nuovi boschi, bisognerebbe valutare gli impatti ambientali complessivi delle tecniche di forestazione, tra cui l’impiego di fertilizzanti e il cambio di destinazione dei terreni, con l’eventuale minore disponibilità di suolo agricolo.

Ci sono poi le frontiere totalmente inesplorate della geo-ingegneria climatica, ad esempio la geo-ingegneria solare (SRM, Solar radiation management), che include diversi metodi per diminuire le radiazioni solari che colpiscono la superficie terrestre.

Un recente studio, pubblicato su Nature Ecology & Evolution, ha esaminato le possibili conseguenze della tecnica che prevede l’iniezione di aerosol nella stratosfera, in modo da formare una sorta di “velo protettivo” in grado di riflettere i raggi solari e così raffreddare il Pianeta.

Il problema, chiarisce la ricerca, è che l’effetto degli aerosol è limitato, quindi bisognerebbe iniettarli con una certa regolarità. Inoltre, uno stop improvviso di questa tecnica comporterebbe un repentino aumento delle temperature terrestri, che seguirebbe l’altrettanto veloce diminuzione delle temperature ottenuta in precedenza con gli aerosol.

Questi sbalzi termici, in definitiva, metterebbero a rischio la sopravvivenza di interi ecosistemi, incapaci di adattarsi alle mutate condizioni ambientali.

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