Ci servono veramente più gas e infrastrutture per l’import? Una diatriba europea

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Il consumo di gas metano in Europa è crollato dopo il picco del 2010. Alcuni governi e analisti ritengono invece necessario spingere su import, produzione domestica e infrastrutture. Altri, all'opposto, spiegano che l'attuale capacità sarà più che in grado di soddisfare i fabbisogni in ogni scenario che si potrà presentare da qui al 2050.

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Eni e governanti italiani ci ripetono continuamente che il “verde” metano, il cugino meno cattivo del carbone e del petrolio, andrà usato sempre di più in Italia e in Europa, come mezzo obbligato di transizione fra un’economia basata su un alto consumo di carbonio fossile e una a zero emissioni di CO2.

Come corollario di questo assunto, ecco giustificata la costruzione di nuove linee di approvvigionamento di gas naturale, dal North Stream tedesco, che porterebbe gas dalla Russia alla Germania, aggirando l’Ucraina, fino al Tap, per far arrivare il metano dell’Azerbaigian attraverso Turchia, Balcani e Italia.

Visto poi che l’Italia, per alcuni, dovrebbe diventare l’hub del gas europeo, nel nostro paese si vagheggiano anche altri progetti meno noti, come il Galsi, dall’Algeria alla Sardegna (peraltro depennato dalla lista di infrastrutture strategiche europee), il Poseidon dalla Grecia all’Italia, in vista di forniture dall’area del Mar Nero o da Cipro, e magari uno o due altri rigassificatori.

Questa visione “a tutto gas” viene giustificata per esempio in questo recente rapporto dell’associazione Eurogas, che riunisce i produttori di questo combustibile, dove si prevede una crescita continua nei consumi: dai 438 milioni di metri cubi (bcm) del 2005, passando per i 535 del 2015, fino ai 578 del 2020 e 625 bcm del 2030, quando il gas dovrebbe coprire il 30,7% dell’energia primaria europea.

L’incremento maggiore avverrebbe nella produzione elettrica, con un +50 bcm, seguito dagli usi industriali, +19 bcm e, infine, dagli usi residenziali, +7 bcm.

Le ragioni della crescita sono i benefici ambientali del gas sul carbone, la velocità nella costruzione delle centrali e la loro alta efficienza, dice il rapporto.

Molto più scettico sui luminosi destini del gas in Europa, è invece l’esperto di mercato del gas Honorè Anouk, dell’Oxford Institute for Energy Study, che ha realizzato un approfondito esame del mercato europeo del metano, dove sottolinea come dopo il picco di consumi del 2010, con 595 bcm, si è assistito a un crollo, soprattutto per la crisi economica, fino ai 481 del 2014, da cui ci sta lentamente risollevando, ma con un ritmo e prospettive tali che forse non riusciranno a riguadagnare i livelli del 2010 fino a metà del prossimo decennio.

A trainare questo declino è stata principalmente la produzione elettrica a gas, passata dagli 869 TWh del 2012 ai 665 del 2014, un -23% che fa del settore elettrico il tallone d’Achille del metano, perché risente direttamente della lenta crescita economica, della popolazione europea stabile e sempre più anziana, dell’aumento dell’efficienza energetica, della concorrenza delle fonti rinnovabili, ma anche, fino a che non si farà qualcosa per eliminarlo o per renderlo antieconomico, della concorrenza dello stesso carbone.

«Non prevedendosi grossi aumenti di consumi energetici in Europa; i produttori di gas possono sperare solo in due cose – dice Anouk – che aumenti il costo della CO2 o si prendano altri provvedimenti che mettano fuori gioco il carbone, e che si chiudano diverse centrali nucleari, per raggiunti limiti di età. In questo caso si aprirebbe un grosso buco nella produzione baseload di elettricità, che la generazione a gas potrebbe in effetti riempire, approfittando anche della sua flessibilità per integrarsi con le rinnovabili».

Sempre che, certo, il prezzo del metano resti basso. Ma se dovesse tornare a crescere, la sua competitività con le rinnovabili peggiorerebbe ulteriormente.

«Per questo motivo – dice Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia – all’Europa, e soprattutto all’Italia, servono nuove infrastrutture per l’import: per differenziare i paesi di fornitura del gas e metterli in competizione fra loro, spuntando prezzi più bassi e stabili, che evitino le oscillazioni improvvise».

La pensa in modo totalmente diverso Antoine Simon, esperto di industria estrattiva e fonti energetiche degli Amici della Terra a Bruxelles.

«L’Europa importa circa 300 bcm di gas l’anno, ma ha strutture per l’import da 600 bcm annui, il doppio, non si vede perché dovrebbe aumentarle ancora: erano già più che sufficienti nel momento del picco dei consumi, nel 2010, a cui ben difficilmente torneremo».

Però la necessità di importare potrebbe aumentare per la sempre più scarsa produzione interna europea: il maggiore produttore europeo, dopo la Russia, è la Norvegia, che ha riserve per solo una quindicina di anni

«In effetti le produzioni in Gran Bretagna, Olanda e Italia, sono in calo. Ma avremmo ancora grandi riserve da sfruttare – dice Tabarelli – se non fosse che in paesi come Olanda e Italia, la pressione degli ambientalisti lo impedisce».

«No – dice Simon – ci sono sicuramente zone europee promettenti per nuovi giacimenti, come l’area fra Cipro e Israele, i mari artici norvegesi o il mar Nero, ma il punto, che spesso non sembra essere chiaro, è che i nuovi giacimenti di fossili non li possiamo usare per non sfondare il budget massimo di emissioni di CO2 e non superare i 2 °C di aumento, come stabilito a Parigi nel 2015. E tantomeno si può immaginare di andare a cercare gas in aree sensibili, come l’Artico norvegese».

Ma comunque, secondo l’esperto belga, di un’ulteriore produzione o importazione di gas, con le relative infrastrutture, non ne abbiamo bisogno.

«La migliore fonte è quella che non si usa. Gli impegni europei sul clima prevedono un calo del 35% dei consumi energetici, e ogni 1% in meno, si traduce in un -2,6% di necessità di gas importato: se si manterranno gli impegni al 2050 ci servirà il 70% in meno di gas rispetto al 2014. Impossibile? No, per esempio secondo una recente ricerca, investendo 81 miliardi di euro nel miglioramento dell’efficienza energetica delle case nell’Europa del sud-est, si taglierebbero i consumi di gas del 70% in quell’area. In questo quadro, cosa ce ne facciamo di nuove infrastrutture per il gas, che poi richiederanno 50 anni per ripagarsi se al 2050 non se ne dovrebbe quasi più usare in Europa?».

Una ragione potrebbe essere quella della sicurezza delle forniture nel periodo intermedio.

«La scelta più saggia – spiega Tabarelli – sarebbe costruire nuovi rigassificatori, che consentano di importare via mare da molti paesi diversi. La mancanza di rigassificatori è particolarmente grave in Italia, il terzo consumatore europeo di gas; ce n’è uno solo con grande capacità, quello di Rovigo, messo al largo, triplicandone i costi, per far contenti gli ambientalisti. Ma copre solo circa un trentesimo dei nostri consumi, non abbastanza per garantirci sicurezza e aumentare la concorrenza, così da abbassare il prezzo del metano, che da noi è del 30% più alto della media europea. Con più rigassificatori, per esempio, potremmo far arrivare dagli Usa il loro shale gas a basso costo, bilanciando quello russo».

È in totale disaccordo Simon. «Per la sicurezza servono solo alcune infrastrutture interne all’Europa, come il BalticConnector, per assicurare nei paesi dell’est forniture di metano dall’ovest, in caso di crisi con la Russia. Quanto ai rigassificatori ce ne sono già per 200 bcm in Europa, ma funzionano solo a un quarto della loro capacità. Anche quello di Rovigo è usato al 70% del suo massimo, mentre gli altri due, Panigaglia e Livorno, addirittura solo al 7% e al 3%».

«Il punto – spiega Simon – è che il metano liquefatto, a causa del trasporto, delle perdite e deii complessi impianti che richiede, costa molto più caro di quello proveniente da gasdotto, mentre è associato a emissioni climalteranti molto maggiori. Se poi questi rigassificatori dovessimo usarli per importare shale gas Usa, sarebbe molto peggio: come spiega una ricerca inglese lo shale gas è una delle fonti energetiche meno sostenibili, che andrebbe ridotta, e non aumentata nel mix energetico».

Fa notare Simon che molti dei grandi esportatori di gas alternativi alla Russia, come Iran, Qatar, Libia, Azerbaigian o Turkmenistan, non sono proprio degli esempi luminosi di democrazia e stabilità.

Ma sicuramente, si afferma da più parti, il gas ci servirà in futuro a prendere il posto di carbone e nucleare come baseload e a bilanciare, con la sua flessibilità l’intermittenza delle energie rinnovabili.

«Questo è quello che dicono, e sperano, i produttori di gas. In realtà stiamo assistendo a una transizione irreversibile verso le rinnovabili, su cui si stanno sempre più concentrando gli investimenti e che quindi occuperanno sempre più spazio nella produzione di energia, compreso quello lasciato libero da carbone e nucleare», dice l’esperto di Amici della Terra.

« È vero che il gas, in attesa che si creino nuovi sistemi di storage su grande scala, è adatto a servire come backup per le rinnovabili, ma per questo uso ne basterà meno di quello usato oggi. Non si vede quindi la necessità di costruire nuove infrastrutture per importarne di più», conclude Simon.

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