CO2 da suolo, foreste e biomasse: politiche Ue 2030 verso “obiettivo zero”

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Raggiunto un accordo preliminare tra Parlamento e Consiglio UE sul regolamento per la gestione dei suoli e dei boschi negli Stati membri. Previsto un “obiettivo zero” per pareggiare i rilasci e gli assorbimenti di anidride carbonica al 2030. I punti critici del pacchetto legislativo.

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Fare in modo che le emissioni di CO2 in ambito forestale non superino le rimozioni di anidride carbonica assicurate dai bacini naturali.

Questa l’obiettivo che l’Europa sta cercando d’inserire nella politica clima-energia 2030 con un nuovo pacchetto legislativo, riassunto dall’acronimo LULUCF (Land use, land use change and forestry), il cui travagliato percorso è appena sfociato in un accordo preliminare tra Parlamento e Consiglio UE (vedi QualEnergia.it sui negoziati precedenti).

Parliamo di un comparto finora sostanzialmente ignorato dai calcoli sulle emissioni di CO2, soprattutto a causa delle notevoli difficoltà per stimare quanta anidride carbonica è rilasciata/assorbita dai terreni e dalle piante.

Con il regolamento LULUCF, quindi, Bruxelles vuole rafforzare il contributo complessivo alla diminuzione della CO2 dei settori – tra cui anche i trasporti, l’agricoltura e l’edilizia – esclusi dal mercato europeo del carbonio ETS (Emissions Trading Scheme: vedi QualEnergia.it sulla riforma di questo meccanismo).

I settori non-ETS, infatti, dovranno ridurre le emissioni del 30% nel 2030 rispetto ai livelli del 2005, come previsto dall’Effort Sharing Regulation (ESR).

Quale sarà il ruolo futuro delle foreste? Il testo uscito dai recenti negoziati, come evidenzia una nota della Commissione europea, riguarda l’utilizzo di terreni coltivabili, pascoli, boschi, biomasse e legname, introducendo il principio “no-debit rule” o “zero target”.

In sintesi, significa che le emissioni di CO2 in ambito forestale non dovranno superare le rimozioni di anidride carbonica assicurate dai bacini naturali (natural sink): dovrà esserci un sostanziale pareggio, in definitiva, tra la CO2 rilasciata nell’atmosfera e quella “trattenuta” da alberi e piante durante ogni periodo di osservazione di cinque anni (il primo sarà 2021-2025).

I singoli Stati, quindi, potranno compensare le emissioni delle attività agroforestali (leggi: deforestazione) attraverso una gestione più attenta e responsabile degli ecosistemi, ad esempio con i rimboschimenti.

Tuttavia, l’accordo avrebbe potuto essere più ambizioso, magari prevedendo un obiettivo di emissioni nette negative (negative net emission target). In altre parole, obbligare i paesi a rimuovere più anidride carbonica rispetto a quella rilasciata nell’atmosfera con il taglio delle piante.

C’è poi un lato “oscuro” della strategia europea per quanto riguarda, più in generale, l’impiego delle biomasse legnose in campo energetico.

Allo stato attuale della legislazione, segnala l’agenzia EurActiv in un approfondimento sul tema, l’Europa conta come rinnovabile l’energia generata bruciando legna e pellet, senza però calcolare l’incremento effettivo delle emissioni se il legname proviene da altri paesi.

Il punto è che importare pellet dagli Stati Uniti, ad esempio, comporta una minore capacità di assorbimento della CO2 oltreoceano, dovuta alla deforestazione negli Usa. Il rischio, allora, è spacciare per verde e pulita una risorsa che, invece, produce una quantità di CO2 ben superiore a quella ufficialmente riconosciuta dalle istituzioni europee, come spiega un gruppo di scienziati in un articolo congiunto.

Al contrario, si legge nel documento, una strategia realmente “sostenibile” dovrebbe ammettere esclusivamente l’utilizzo di biomasse di scarto, evitando di distruggere foreste vergini allo scopo di produrre energia in sostituzione dei combustibili fossili.

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