La “nuova normalità” di Harvey e la politica dello struzzo sul global warming

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Mentre l'uragano Harvey causa danni per decine di miliardi di $ e mette sott'acqua 1300 kmq di territorio in Texas, Trump, le autorità politiche e i meteorologi Usa evitano qualsiasi collegamento tra questo evento estremo e i cambiamenti climatici, avallando le irresponsabili scelte della politica.

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Solo due settimane fa, a ferragosto, Trump aveva firmato un “Executive Order” per eliminare una norma che Obama aveva introdotto nel gennaio 2015 al fine di garantire che gli impatti di alluvioni e altri fenomeni estremi connessi con il cambiamento del clima venissero attentamente considerati nella valutazione delle infrastrutture.

L’ampiezza del disastro causato dall’uragano Harvey in Texas dimostra l’insensatezza ideologica di queste decisioni.

Perché se il “global warming” non è la causa di questi fenomeni estremi, certo li accentua. Come ha spiegato bene Michael Mann, direttore del Penn State Earth System Science Center, la temperatura elevata dell’Oceano, comportando un aumento del contenuto d’acqua in atmosfera, ha certamente influito sulla forza distruttiva di Harvey.

Negli ultimi decenni non solo la temperatura della superficie del Golfo del Messico ha visto un incremento di mezzo grado, ma anche le acque più profonde si sono riscaldate a seguito del cambiamento del clima.

La temperatura dell’area nella quale si è sviluppato Harvey era di ben 2 °C sopra la media, una condizione che ha favorito lo scatenarsi di piogge torrenziali che in alcune aree hanno raggiunto un altezza di 1,2 metri, stracciando ogni record storico negli Usa continentali.

Nella sola contea dove è situata Houston sono andati sott’acqua 1.300 kmq, sommersi da un volume paragonabile a quello scaricato in 15 giorni delle cascate del Niagara.

Ma c’è un altro elemento legato al riscaldamento del pianeta che spiega le devastazioni in corso. Parliamo dell’incredibile stazionarietà dell’uragano che invece di spostarsi rapidamente si è mosso a passo d’uomo, andando anche a ricaricarsi nell’oceano per poi tornare a colpire. 

Questo comportamento è legato alla presenza di un’area di alta pressione subtropicale in larga parte del cuore degli Stati Uniti, una situazione anomala prevista dai modelli di simulazione climatici.

Stupisce che, a fronte di un disastro che economicamente avrà un impatto di qualche decina di miliardi di dollari, si cerchi di evitare un collegamento con il riscaldamento del pianeta. 

Nelle dirette no-stop delle televisioni statunitensi si continua a parlare dell’implacabilità di “Mother Nature” e della imprevedibilità dell’evento. Anche il compassato Servizio Meteorologico Nazionale dichiara: “questo evento non ha precedenti e gli impatti sono imponderabili e vanno aldilà di ogni passata esperienza”.

La probabilità di un uragano come Harvey è stata valutata pari allo 0,1%, dovrebbe cioè capitare solo una volta ogni 1.000 anni. Ma la realtà è che nel recente passato di Houston ci sono stati altri uragani con una probabilità di accadimento ogni 500 anni e che la frequenza di fenomeni estremi è raddoppiata negli ultimi tre decenni.

Non a caso, quest’area ha ricevuto, a parità di superficie, una quantità di aiuti statali a causa delle alluvioni 200 volte superiore rispetto alla media degli Usa.

Il fatto è che siamo entrati in una “nuova normalità” che imporrebbe non solo la capacità di gestire situazioni eccezionali, ma anche una riflessione critica sul modello di sviluppo urbano

Houston, da questo punto di vista, è un esempio di assoluta irresponsabilità. Unica grande città statunitense priva di zonizzazione, si è rapidamente espansa fino a diventare la quarta area urbana del paese con il risultato che la superficie cementificata è aumentata del 25% in soli quindici anni.

Una dinamica facilitata dalle pressioni delle potenti lobby dei costruttori che hanno finanziato le campagne elettorali, inclusa quella dell’attuale sindaco.

Non stupisce quindi che Mike Talbott, responsabile per 18 anni del controllo delle acque della città, abbia candidamente affermato che non sono previsti studi per valutare i possibili impatti del cambiamento del clima. E con un presidente come Trump, che ha deciso di non sostituire il delegato alle trattative sul clima, questa opacità rischia di continuare.

Ma sono molti i segnali di preoccupazione in giro per il mondo. 

Mentre l’attenzione dei media era concentrata sul Texas, Bombay, una metropoli con 18 milioni di abitanti, veniva sommersa da piogge dieci volte superiori alla norma. Per non parlare delle 1.200 vittime delle alluvioni delle ultime settimane in Nepal, India e Bangladesh, che hanno comportato la fuga di milioni di persone dalle loro case.

Tutto ciò mentre, nel 2017 come nei due anni precedenti, la temperatura del pianeta ha raggiunto livelli record, dall’Antartide si è staccata una piattaforma di ghiaccio dell’ampiezza della Liguria e per la prima volta una petroliera russa ha seguito la rotta artica e senza bisogno di rompighiaccio.

Se, dunque, occorre fronteggiare condizioni climatiche sempre più estreme con adeguate politiche di adattamento per minimizzare i rischi, vanno anche accelerate le politiche di riduzione delle emissioni di anidride carbonica.

Su questo fronte, dopo l’Accordo di Parigi i segnali sono ambivalenti. Negli Usa, mentre Trump smantella le politiche di Obama abbiamo risposte forti come quelle della California che punta ad eliminare i fossili nella generazione elettrica già nel 2045. In Cina, mentre il consumo di carbone, calato negli ultimi due anni, è tornato a crescere, con largo anticipo è stato raggiunto l’obbiettivo di 100 GW fotovoltaici previsto per il 2020.

Insomma, indicazioni ancora contradditore, a fronte di una sfida che non ammette sconti.

L’articolo è stato pubblicato anche su La Stampa di oggi, con il titolo “Houston, abbiamo un problema

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