Dalle terre rare alle supergrid, come le rinnovabili cambieranno la geopolitica

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Uno studio Harvard-Columbia, partendo da diversi scenari elaborati dalle agenzie internazionali, cerca di capire la probabile evoluzione delle relazioni tra governi, istituzioni e utility, sulla scia degli impatti causati dallo sviluppo crescente delle rinnovabili a scapito dei combustibili fossili.

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La maggior parte degli studi sull’energia stima una crescita molto forte delle rinnovabili nei prossimi anni, in alcuni casi un loro sorpasso sui combustibili fossili: quali sarebbero le conseguenze geopolitiche di una transizione energetica accelerata?

È la domanda cui cerca di rispondere il documento The Geopolitics of Renewable Energy (allegato in basso), pubblicato dalle università di Columbia e Harvard per conto del Norwegian Institute of Foreign Affairs.

Gli autori hanno considerato le proiezioni uscite nel 2016 sul mix futuro delle risorse fossili/rinnovabili di diverse organizzazioni internazionali e grandi compagnie, in particolare: IEA, IRENA, Bloomberg, BP, Exxon-Mobil, fino al più recente rapporto dell’International Energy Agency per la decarbonizzazione dei paesi G20 (articolo di QualEnergia.it sull’ultimo scenario elaborato dalla IEA).

Per quanto riguarda gli scenari di previsione, osservano gli esperti, a prescindere dalle notevoli differenze tra le assunzioni dei differenti studi, il punto che li accomuna è che sono piuttosto conservativi, perché le fonti tradizionali – petrolio, gas, carbone – continueranno a dominare il panorama energetico nel 2035-2040.

Il discorso cambia, invece, negli studi che definiscono quel “mondo desiderabile” che consentirebbe di limitare il surriscaldamento globale entro 2 gradi centigradi, per poi identificare le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi pro-rinnovabili.

Il futuro descritto vede sempre le fonti rinnovabili al 50-70% dei consumi totali primari di energia nel 2050, con impatti geopolitici che secondo gli studiosi delle due università americane potrebbero interessare cinque aree: approvvigionamento di materie prime critiche, tecnologia e finanza, reti elettriche, calo della domanda di petrolio e gas, rischi associati al cambiamento climatico.

Nuovi cartelli internazionali, si legge nel documento, potrebbero costituirsi per controllare le forniture delle terre rare (materiali come disprosio e neodimio largamente impiegati nell’industria delle rinnovabili), anche se gli autori dubitano che potranno esercitare una forza pari a quella attuale dell’OPEC in campo petrolifero.

Cina e Russia detengono il 57% circa delle riserve mondiali di terre rare; inoltre, in Cina si concentra la quasi totalità della filiera mineraria-produttiva.

Pure sul litio aleggia qualche incognita, soprattutto se l’alimentazione elettrica riuscirà a sfondare il mercato automobilistico nei prossimi anni: in questo caso, potrebbero verificarsi degli squilibri di breve-medio termine tra domanda e offerta di litio per le batterie, a vantaggio delle nazioni che possiedono le maggiori riserve planetarie, nell’ordine Australia, Cile e Cina (intervista di QualEnergia.it a Giovanni Di Girolamo, esperto ENEA).

Nell’area tecnologica-finanziaria, evidenzia lo studio USA, tra i vari fattori che potrebbero rimodellare il quadro geopolitico internazionale, troviamo senza dubbio la competizione per lo sviluppo delle nuove infrastrutture delle rinnovabili.

Molte utility e compagnie petrolifere stanno variando le loro attività e competenze, dirottando investimenti sulle tecnologie pulite per diminuire gradualmente il peso dei carburanti tradizionali; tra gli annunci più recenti di disimpegno fossile c’è quello del colosso svedese Vattenfall.

L’incertezza maggiore, osservano gli studiosi di Harvard e Columbia, è su quale modello energetico prevarrà nei decenni a venire: una generazione diffusa, più “democratica” perché favorisce l’autoconsumo con piccoli impianti e sistemi di accumulo, o un modello green centralizzato, fatto di grandissimi impianti eolici e solari, con infrastrutture regolate di trasmissione-comunicazione digitale?

In altri termini, gli autori del documento ravvisano la possibilità che diversi gruppi di paesi costruiranno delle supergrid, sistemi elettrici sovranazionali da utilizzare anche come “arma energetica” per influenzare le relazioni tra governi e istituzioni.

Al momento, però, simili progetti di supergrid hanno avuto ben poca fortuna, ad esempio il naufragato progetto Desertec che intendeva esportare in Europa l’energia generata nei deserti africani da mega centrali fotovoltaiche.

Un altro fattore di rischio geopolitico è dato dalle difficoltà di garantire l’accesso universale all’elettricità, riducendo al contempo la dipendenza dai combustibili fossili. Un recente studio della Nato Parliamentary Assembly evidenziava che il cambiamento climatico è un potente moltiplicatore di minacce (threat multiplier) su scala globale.

Parliamo dei conflitti innescati dalla scarsità di risorse energetiche e dall’insicurezza idrica e alimentare, soprattutto nei paesi emergenti più colpiti da eventi estremi come siccità prolungate e desertificazione.

Con la diffusione di micro-reti e tecnologie di generazione elettrica off grid, prosegue il documento Harvard-Columbia, le comunità locali potrebbero indebolire il potere di controllo dei governi centrali, a tutto vantaggio della condivisione energetica.

In definitiva, l’emergere di conflitti futuri dipenderà in buona parte dalla reazione degli Stati che fondano le loro economie sull’esportazione di oro nero e gas naturale, oltre che dalla capacità di bilanciare la perdita di profitti e posti di lavoro nei settori oil&gas con nuovi guadagni e nuova occupazione nelle rinnovabili.

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(articolo pubblicato originariamente il 10 luglio 2017)

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