G20, sussidi pubblici alle fossili battono quelli per le rinnovabili 4 a 1

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Quando parlare è facile, è il titolo di un report curato da diverse Ong e anche un po' la sintesi dell'ipocrisia dei paesi G20 che si schierano compatti (o quasi) per l'accordo di Parigi, ma poi continuano ad alimentare le fossili con quasi 72 mld di $ pubblici all'anno contro i 18,7 alle rinnovabili.

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Il problema dell’aumento della temperature del pianeta sembrerebbe toccare così profondamente le classi politiche e i dirigenti dei paesi più industrializzati che non passa giorno che essi non stigmatizzino pubblicamente con durissime parole le scelte certamente incomprensibili e pericolose del neo presidente statunitense.

Come si sa, basta aver trovato il nemico di turno e si passa d’incanto dalla parte dei buoni. Ma le cose non sono così lineari come fanno credere ai media i grandi della Terra, dentro i cosiddetti G20, che si incontreranno da domani all’8 luglio ad Amburgo.

Questo approccio manicheo nasconde una serpe in seno: i sussidi pubblici alle fonti fossili.  

Nonostante le apparenze e di fronte al quasi certo superamento del limite di incremento dei 2° centigradi della temperatura entro fine secolo, gli stessi governi che si vantano di aver firmato e onorato (verbalmente finora) l’accordo di Parigi sul clima continuano a foraggiare con prestiti nascosti, garanzie e altre modalità di finanziamento un’ampia gamma di progetti legati alle fonti fossili, così da renderli di fatto più economici.

Il titolo di un report che fa il punto su questa vergognosa ipocrisia, ricco di dati e grafici e curato da diverse organizzazioni ambientaliste e Ong, è esemplare: “Talk is cheap. How G20 governments are financing climate disaster” (autori: Oil Change International, Friends of the Earth US, Sierra Club e WWF Europe, allegato in basso).

In sintesi si denuncia come i governi dei G20 stiano erogando finanziamenti e incentivi pubblici alle fonti fossili pari a circa 4 volte rispetto a quanto dato alle fonti rinnovabili. Ripetiamo, il rapporto è 4 contro 1.

Con la mano destra firmano impegni, peraltro piuttosto deboli negli obiettivi e nei tempi, quali l’accordo di Parigi, e con la mano sinistra aumentano o mantengono i sussidi per nuove infrastrutture, produzione e consumi di energia da fonti fossili. Altro che assurgere a paesi-leader nella lotta ai cambiamenti climatici!

La politica dei governi dimostra una volta di più quella loro naturale e storica vocazione di difensori delle fossili e dei sistemi energetici centralizzati, quasi un Dna dello Stato che sembra duro a scomparire.

Tra il 2013 e il 2015 i paesi del G20 hanno erogato ogni anno finanziamenti pubblici ai progetti di fonti fossili pari a 71,8 miliardi di dollari (215,3 mld di $ in tre anni) contro 18,7 per le fonti rinnovabili.

Il Giappone con una media annuale di 16,5 mld $ detiene il primato nei fondi pubblici alle fossili (vedi grafico), sei volte di più di quelli per le rinnovabili nel paese del Sol Levante.

Come si vede da quest’altro grafico (a destra) i fondi pubblici alle rinnovabili (non sono inclusi gli incentivi nazionali, né il nucleare e il grande hydro) sono stimati in appena il 15% del totale (122,9 mld $/anno). Quel 26% della torta riguarda invece le spese per infrastrutture che non possono essere assegnate né alle fossili né alle energie pulite (reti, dighe, ecc.).

Tra il 2013 e il 2015 tutte le forme di finanziamento dalle istituzioni nazionali dei G20 e dalle banche multilaterali di sviluppo hanno sostenuto per il 50% la produzione di petrolio e gas (62 mld di $/anno).

Se guardiamo a tutte le fonti fossili, le stesse istituzioni del G20 hanno supportato 6 volte di più petrolio e gas rispetto al carbone.

Ogni anno questi governi hanno indirizzato fondi pubblici per circa 13,5 miliardi di dollari solo all’esplorazione di petrolio, pur sapendo che molte delle riserve già scoperte non potranno essere sfruttate per non incrementare le emissioni di CO2 e dunque la crisi climatica.

È inquietante poi vedere che le agenzie di credito per l’esportazione degli stessi paesi, nel periodo 2013-2015, abbiano fornito un più elevato livello di sostegno alla produzione di combustibili fossili, 38,3 mld di $/anno, rispetto alle istituzioni finanziarie bilaterali e multilaterali (24,7 mld di $/anno). Qui primeggia la Banca Mondiale con 8,7 mld di dollari erogati ogni anno alle fonti energetiche sporche.

L’Italia, si spiega nel report, sebbene in qualità di presidente del G7 quest’anno abbia spinto per una maggiore sintonia dei finanziamenti multilaterali con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, continua ad erogare in media 2,1 miliardi di dollari ogni anno di denaro pubblico, contro appena 123 milioni di $ per le fonti pulite, cioè 17 volte di più.

La Cina, vista da molti come nuovo leader nella battaglia sul clima, grazie anche al suo impegno sul fronte rinnovabili e con la recente riduzione della produzione di elettricità da carbone, ha però dati sconfortanti: 13,5 mld di $ per le fossili contro una irrilevante cifra di 85 milioni di $ per le rinnovabili. Chi fa qualcosa di meglio è la Germania: 3,5 mld di $ pubblici alle fossili e 2,4 alle rinnovabili.

I governi dei G20 dovrebbero iniziare a spostare migliaia di miliardi di dollari dalle infrastrutture inquinanti a quelle low carbon, dall’esplorazione di giacimenti di oil e gas a progetti per la salvaguardia degli ecosistemi, dai sussidi più o meno nascosti alla produzione e consumi di energia fossili allo sviluppo di un’economia circolare e un’industria green.

Purtroppo questo studio dimostra che l’attuale tendenza sta andando esattamente nella direzione opposta.

Dirottare queste risorse non sarà facile, ma dovrà essere fatto e pure rapidamente. E la scellerata politica di Donald Trump non potrà essere considerata una scusa per non farlo.

Report “Talk is Cheap” (pdf)

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