Per i G20 il tempo è scaduto, misure immediate e ambiziose per rinnovabili e clima

Questo non solo è il momento giusto per investire in rinnovabili e nella decarbonizzazione dei sistemi energetici, ma anche non rinviabile perché siamo ancora dentro una “finestra” di tempo, peraltro molto ristretta, per evitare il collasso climatico. Due interessanti articoli lanciano un avvertimento ai paesi del G20.

ADV
image_pdfimage_print

Il G7 a Taormina, per quanto riguarda l’ambiente e il clima, non è andato certo bene, con il preannunciato ritiro degli Usa da Donald Trump dall’accordo di Parigi per la lotta al cambiamento climatico, che ha impedito di scrivere un documento unitario.

È vero che gli altri sei paesi hanno dichiarato di essere determinati ad andare avanti sulla strada della riduzione delle emissione di CO2, ma per quanto riguarda l’UE, vista l’annacquatura degli impegni sull’efficienza energetica decisa pochi giorni fa al Consiglio sull’Energia, sembra che sia un determinazione all’acqua di rose.

Andrà meglio con il G20 (G7 + i più importanti altri 13 paesi industriali del mondo) che si terrà ad Amburgo il 7 e l’8 luglio?

In vista dell’incontro, sono stati pubblicati due interessanti articoli che sottolineano come questo sia il momento giusto per riuscire ad evitare una catastrofe climatica e come, nonostante le decisioni del bizzarro presidente statunitense, il mondo sembra continuare a credere nelle rinnovabili, anche perché sono le uniche fonti in grado di risolvere i crescenti problemi di approvvigionamento energetico delle nazioni in crescita demografica.

Tempi stretti per tagliare la CO2

Il primo articolo, apparso su Nature e firmato da oltre 60 scienziati, direttori di enti internazionale e top manager di multinazionali, è intitolato eloquentemente “Three years to saveguard our climate”.

Nell’articolo si ricorda come riuscire a rispettare il target di Parigi (contenere l’aumento di temperatura sotto i +2 °C, e possibilmente al di sotto di +1,5°C,  rispetto al 1850), richiede una serie di azioni decise e veloci da far partire entro il 2020 così che l’addizione di CO2 in atmosfera cominci a calare da quell’anno, per poi consumare il budget di CO2 che sarà possibile aggiungere ancora in aria, circa 600 miliardi di tonnellate, entro il 2040.

Partendo, invece, anche solo 5 anni dopo con questa riduzione, per rispettare i limiti non resterebbe invece che adottare misure così drastiche da azzerare il budget di CO2 residuo entro il 2035, una velocità ed intensità di intervento tale da renderne l’attuazione quasi impossibile (vedi grafico).

«Ma possiamo riuscire nell’impresa colossale di cominciare il calo entro tre anni», dice Christiana Figueres, ex direttrice dell’United Nations Framework Convention on Climate Change.

«La ragione è che ha deciso di proseguire lungo questa strada il 99% dei governi mondiali, molti Stati chiave degli Usa e quasi l’intero settore industriale privato mondiale. L’opportunità che ci viene concessa dal sommarsi di un simile consenso non si era mai verificata nella storia».

Secondo gli autori del documento ormai la tecnologia disponibile e il contesto politico sono tali che non ci sono più scuse per ulteriori ritardi, anche perché non ce li possiamo più permettere: il target dei +2 °C al massimo è alla nostra portata solo se agiamo immediatamente.

«Siamo stati fortunati ad avere un pianeta tanto resiliente da aver assorbito per un secolo tutti i nostri “abusi” senza perdere la capacità di farci sopravvivere», ha scritto Johan Rockström del Resilience Centre di Stoccolma. «Ora questa era è finita, o abbassiamo le emissioni, oppure ci troveremo a fronteggiare eventi tecnicamente e socialmente ingestibili».

Per evitarli gli autori propongono interventi con target molto ambiziosi in sei settori, da innescare entro il 2020 e completare entro il 2030.

  • Energia: portare le rinnovabili al 30% della produzione elettrica nel mondo, e bloccare la costruzione di nuove centrali a carbone dopo il 2020, ritirando via via quelle esistenti.
  • Infrastrutture: città e regioni devono portare il loro patrimonio edile a un livello di emissioni vicino allo zero, ristrutturando il 3% degli edifici nei loro territori ogni anno.
  • Trasporti: fra 2020 e 2030 si dovrà raggiungere la quota di almeno il 15% di vendita di veicoli leggeri elettrici o ibridi plug in. Dovrà anche raddoppiare la capacità dei trasporti pubblici: aumentare del 20% l’efficienza dei veicoli pesanti e degli aerei di linea.
  • Foreste: oggi la deforestazione crea il 12% delle emissioni di gas serra antropiche. Occorre azzerare questa pratica entro il 2030, diminuendo i tagli, ma anche aumentando la riforestazione, così che i terreni diventino deposito di CO2.
  • Industria: devono moltiplicarsi gli sforzi delle industrie che emettono più CO2 (cemento, acciaio, chimica pesante, raffinazione) per aumentare l’efficienza dei loro processi che oggi sono responsabili di un quinto delle emissioni. L’obbiettivo è dimezzare il loro contributo entro il 2050.
  • Finanza: il sistema finanziario ha diretto verso progetti contro il cambiamento climatico solo 81 miliardi di dollari nel 2016: bisogna  accelerare al massimo l’emissione di obbligazioni per questo fine da parte di enti pubblici e privati, fino a raggiungere i 1.000 miliardi di $ l’anno.

Investimenti necessari nei G20

Il secondo studio è stato invece effettuato dall’Allianz Climate and Energy Monitor 2017, un’associazione finanziata dalle assicurazioni Allianz, il cui lavoro scientifico viene svolto dal tedesco The NewClimate Institute.

In vista del G20 è stata prodotta la classifica della capacità di attrazione per gli investimenti in energie rinnovabili da parte dei venti paesi più industrializzati e un’altra che indica il bisogno che questi paesi avrebbero di una massiccia e rapida introduzione di rinnovabili, sia per soddisfare le crescenti richieste di energia delle loro popolazioni, sia per mettere in sicurezza le loro reti (vedi figura tratta dallo studio Allianz).

Contrariamente a quanto si poteva pensare 10 anni fa, quando le rinnovabili venivano presentate come un “capriccio da ricchi”, oggi sono proprio i paesi in via di sviluppo a puntare di più su queste fonti, essendosi rivelate le più flessibili, rapide da installare e sempre più spesso le più competitive, quindi le più adatte per evitare il collasso di sistemi elettrici inadeguati e sotto crescente stress.

Infatti gli investimenti in energie rinnovabili sono cresciuti del 25% in 5 anni nei paesi del G20.

«Un buon risultato, ma che per consolidarsi  richiederà legislazioni che aiutino ad accogliere queste fonti non programmabili nei sistemi elettrici, così da dare sicurezza di lungo termine agli investitori», dice Jan Burck, dell’associazione ambientalista Germanwatch e coautore del rapporto.

«Senza queste norme non riusciremo ad arrivare ai 700 miliardi di dollari l’anno che si calcola siano il minimo necessario per soddisfare i bisogni dei paesi G20. Un traguardo ancora molto lontano, se si pensa che nel 2016 gli investimenti in rinnovabili hanno toccato ‘appena’ i 287 miliardi di dollari».

Possono sembrare cifre enormi, ma, aggiunge Niklas Höhne del NewClimate Institute «una volta aggiustato il mercato e la legislazione per accogliere le fonti rinnovabili, e concessi incentivi per far partire le prime installazioni, l’ulteriore aggiunta di potenza rinnovabili, per soddisfare una domanda che in molti dei paesi G20 è in continuo e rapido aumento, è finanziariamente neutrale, rispetto al puntare su altre fonti».

In altre parole, per solare o carbone, questi soldi andranno comunque spesi.

Ma vediamo, con le classifiche realizzate da Höhne e colleghi, quali dei paesi G20 riesce ad attrarre più investimenti in rinnovabili e chi ne avrebbe più bisogno.

I vincitori nel primo caso sono Germania, Gran Bretagna e Francia, seguiti da Cina e Sud Corea. Tutte e cinque queste nazioni hanno mantenuto la stessa capacità di attrazione del 2016.

I due paesi in successione, Giappone e Usa, l’hanno leggermente aumentata, mentre è peggiorata la capacità di intercettare investimenti da parte dell’Italia (scesa dal 5° al 8° posto, soprattutto per le sue politiche inadeguate) e dell’Australia.

Ben diversi i paesi che più avrebbero bisogno urgentemente di aggiungere rinnovabili ai loro sistemi elettrici, sia per compensare la crescita demografica che per stabilizzare la rete: India, Sud Africa, Brasile e Indonesia, paesi che sono però purtroppo anche piuttosto in basso nella classifica di attrazione degli investimenti necessari, fra l’11° e il 14° posto.

I paesi meno attraenti per i capitali “verdi” sono invece  Russia, Turchia e Arabia Saudita, ma mentre per la Turchia questo non risulta un grande problema (è la terzultima nella classifica del “bisogno di rinnovabili”, davanti ad Australia e Messico), Russia e Arabia sono fra i paesi che ne avrebbero più bisogno, soprattutto per stabilizzare le loro reti.

L’Italia, infine, quasi a giustificare la sua non brillante capacità di attrazione di capitali per le rinnovabili, è anche il paese del G7 che risulta averne meno bisogno: siamo quart’ultimi, con ben poca crescita di consumi da coprire e una rete già relativamente stabile, comparata a quella di quasi tutti i 16 paesi che ci precedono.

ADV
×