Fotovoltaico: errori del passato, possibili rimedi e l’impianto piccolo e ben fatto

Installazioni frettolose, incentivi gonfiati, investimenti speculativi. Nel settore del fotovoltaico italiano sono stati commessi errori dai quali è necessario imparare per continuare sulla strada delle rinnovabili. Per sviluppare la generazione distribuita serve una nuova idea di impianto: piccolo e ottimizzato.

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L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

Quasi la metà della capacità italiana di generazione dell’energia proviene da fonti rinnovabili, e nel 2015 ha coperto il 39% della produzione.

Dobbiamo essere grati ai nostri nonni e bisnonni che per elettrificare il Paese hanno realizzato una rete di centraline idroelettriche e geotermiche.

E grazie anche ai nuovi investitori che, attratti da generosi incentivi, negli ultimi sei anni hanno di investito circa 80 miliardi di euro in impianti idroelettrici, geotermici, a biomasse e biogas, eolici e fotovoltaici.

In particolare, queste due ultime tecnologie hanno implicato il 90% degli investimenti, aggiungendo quasi 22.000 MW di capacità e 28 TWh/anno di producibilità, ovvero il 10% di quanto il sistema elettrico complessivamente genera in un anno.

La peculiarità di quest’accelerazione verso l’utilizzo di fonti di energia pulita è in una forma in gran parte “democratica”: quasi 600mila famiglie e 5mila piccole aziende hanno installato un tetto fotovoltaico; i 12mila investitori che hanno realizzato gli impianti dedicati sono quasi tutti privati.

Il beneficio per il sistema Italia è evidente: consumiamo (e quindi importiamo) meno combustibili fossili, per produrre energia elettrica mediamente inquiniamo meno dei nostri cugini europei (un terzo meno del Regno Unito, che si avvale di centrali nucleari che non emettono fumi) e infine valorizziamo aree marginali del territorio.

Più rilevante, da un punto di vista di gestione del sistema energetico, è l’aspetto d’integrazione del fotovoltaico con l’andamento giornaliero della domanda.

Trainata dalla diffusione di impianti di condizionamento, ormai dal 2009 la punta di domanda si è spostata dall’inverno ai mesi estivi: in un tipico giorno feriale di luglio, tra le undici e le quattro del pomeriggio, noi Italiani con le nostre attività e industrie chiediamo 60mila MW alla rete, circa metà della potenza efficiente disponibile.

Il profilo di generazione dei 18.600 MWp di fotovoltaico installato in Italia ha il massimo della produzione proprio al massimo della domanda; questo consente al sistema elettrico, e in particolare alle centrali termoelettriche, di lavorare con un profilo abbastanza piatto, massimizzando l’efficienza dei gruppi di generazione.

Quest’apparente corrispondenza tra l’andamento giornaliero della domanda di energia e l’erogazione da parte degli impianti solari dovrebbe costituire una situazione win-win, in cui regolatori del sistema energetico e singoli investitori siano entrambi soddisfatti.

Burocrazia in agguato

Non è più così. L’accanimento del regolatore su aspetti puramente burocratici richiede anche a singole famiglie una gestione eccessivamente onerosa della documentazione, quando addirittura impossibile perché disseminata lungo la catena del valore, tra installatori, fornitori, enti certificatori e gestori locali della rete.

La manutenzione delle apparecchiature diventa complessa perché a distanza di anni i costruttori hanno cambiato denominazione, si sono fusi con altri, o addirittura hanno cessato l’attività: per l’attuale proprietario diventa impossibile recuperare la documentazione richiesta anni dopo dal Regolatore, in aggiunta a quanto allora necessario e regolarmente sottoposto in fase di ottenimento del regime incentivante.

Ben più insoddisfatti sembrano essere gli investitori professionali che hanno realizzato 12mila impianti che variano tra 200 kW a decine di MW, per complessivi 11.300 MW di capacità.

Questi hanno investito grazie a 40 miliardi di euro di finanziamenti, garantiti dai ricavi praticamente certi degli incentivi ventennali sulla produzione, prevedibile per il fotovoltaico con un alto grado di affidabilità.

Con il tempo, questi investitori si sono trovati a fronteggiare la riduzione degli incentivi, l’introduzione di balzelli fiscali (poi in parte rimodulati), l’accanimento degli enti regolatori su aspetti tecnici non regolamentati in precedenza e su aspetti burocratici (le cui responsabilità risiedono prevalentemente nei tavoli delle publiche amministrazioni), sul dilagare di furti e danneggiamenti con il conseguente aumento dei costi operativi: per gli investitori stranieri, l’Italia si è rapidamente tramutata dall’atteso Paese di Bengodi a un incubo da cui è complicato uscire.

Netplan stima che gli investitori con un considerevole portafogli di impianti detengano al momento non più di 2.000 MW, lasciando 9.300 MW a investitori non specializzati che hanno maggiori difficoltà nel gestire la crescente complessità amministrativa, caratterizzata da smisurata richiesta documentale retroattiva su impianti regolarmente autorizzati e realizzati sulla base delle pressi e delle norme vigenti allora.

Incentivi alternati

Tutta colpa dello Stato? In parte. Certamente un Paese che prima invoglia gli investitori con incentivi sostanziosi per poi rimangiarsi retroattivamente la promessa (come ha fatto col provvedimento Spalma Incentivi del fotovoltaico) non aiuta.

Tantomeno aiutano l’inasprimento (anch’esso retroattivo) delle regole di autorizzazione e di esercizio, che hanno reso la gestione burocratica degli impianti estrememente onerosa, e non aiutano le modalità ispettive del Gse che hanno fatto la gioia degli studi legali di tutto il Paese, affollando inutilmente il sistema giudiziario.

Lo Stato sembra ignorare che la ricaduta sul territorio (prevalentemente locale) valga quasi 4 miliardi di euro all’anno (sono nostre stime), dei quali poco meno di un terzo di manodopera specializzata (almeno 30mila addetti full time), e per servizi meno qualificati, come guardiania e taglio erba, 300 milioni di euro di rendita dei terreni altrimenti inutilizzabili, con 11mila proprietari terrieri coinvolti, 500 milioni di euro di servizi amministrativi, poi coperture assicurative, energia ausiliaria e varie, inclusi almeno 1 miliardo di euro allo Stato per imposte sul reddito, sulla proprietà e per concessioni demaniali.

500mila famiglie, ovvero circa un milione di cittadini che possono recarsi alle urne, iniziano spazientirsi dall’improvviso emergere di vessazioni burocratiche poco comprensibili.

Il sistema bancario è pesantemente coinvolto: negli ultimi otto anni sono stati investiti almeno 80 miliardi di euro in realizzazioni di impianti da fonti rinnovabili, e gran parte sono ancora nei libri degli istituti di credito.

Tutti stakeholders dell’industria delle rinnovabili che iniziano a essere rumorosamente seccati.

Il limite dello speculativo

Dunque, tutta colpa dello Stato? Noi a Netplan siamo convinti che ci sia anche responsabilità di chi ha considerato l’investimento in impianti fotovoltaici come puro investimento speculativo, alla stregua di un’obbligazione finanziaria, compiendo un grande equivoco di prospettiva.

I nostri nonni non hanno soltanto realizzato ardite opere di sbarramento per costruire centrali idroelettriche ma anche avviato una tradizione di attenta gestione, di manutenzione competente dei canali di adduzione, di adeguamento a più moderne tecnologie di automazione, di opere aggiuntive di captazione.

A Palermo c’è una centralina che riceve acqua dalla Piana degli Albanesi dove la garanzia della turbina è stata scritta da Thomas Alva Edison di suo pugno, l’imprenditore americano che l’ha venduta. Ma la centralina non è rimasta identica per 90 anni!

Oggi è una moderna centrale idroelettrica, gestita secondo i sistemi più avanzati. Mai, nella sua vita, è stata considerata solo un investimento finanziario, pietrificato sulla base del modello economico utilizzato dalle banche di allora per finanziarla.

La prima delle colpe che ha chi ha investito sul fotovoltaico è quella di aver concordato finanziamenti così detti in project financing che hanno ingessato il progetto realizzativo degli impianti e le modalità di conduzione.

Addirittura i sistemi di gestione ricalcano il bank model stabilito con le banche, che si trasforma da worse-case in obiettivo tecnico economico di gestione. Qualunque miglioramento tecnico o economico deve essere sottoposto allo scrutinio della banca o dei suoi consulenti, entrambi i quali dotati di minori competenze del richiedente. Sul campo, contratti e manuali hanno iniziato a sostituire i cervelli.

Una seconda colpa è stata la fretta dei privati per qualificare i progetti per gli incentivi più appetibili. Lo sviluppo commerciale del fotovoltaico, per esempio, è stato velocissimo e con questo la competitività delle apparecchiature: un modulo che nel 2008 era acquistato a $ 5/W, oggi si acquista a $ 0,50/W, dieci volte di meno.

Giustamente, gli incentivi hanno iniziato a diminuire man mano che il costo per realizzare gli impianti è diminuito. Per qualificare gli investimenti con un incentivo più alto, molti imprenditori, anziché ottimizzare gli aspetti tecnici sulla base delle reali risorse d’irraggiamento e delle più redditizie curve di domanda, si sono basati su rozzi progetti empirici, mettendo a terra più pannelli ammissibili, nel minor spazio e più in fretta possibile.

Ne derivano progetti, dove i pannelli si fanno ombra uno con l’altro, in gran parte esposti a sud e rigidamente ancorati al terreno, in stringhe abbinate senza ordine e senza tener conto delle caratteristiche individuali di ciascun pannello (l’efficienza di una stringa risente dell’efficienza del peggior pannello su quella stringa), con inverters non ottimizzati per seguire il carico, cavi di sezione insufficiente, inverter esposti a temperature eccessive (che sarebbero mitigabili con semplici ombreggiature delle cabine).

Si è analizzata poco la differenza di prestazioni delle singole tipologie di pannelli, per esempio quella della resa energetica. Nella fretta, si acquistavano pannelli dai fornitori disponibili, un tanto al kilo ($/kW), senza ragionare sul rendimento (kWh/kW).

In Italia, nessuno ha attuato misure d’irradiazione sui siti scelti e in pochi hanno realizzato che le tabelle Enea, utilizzate dalla maggior parte degli imprenditori, erano imprecise.

Scarsa visione

Quasi nessuno ha considerato il valore terminale di siti connessi, una volta che gli incentivi fossero scaduti. Di conseguenza, pochi hanno valutato il ritorno sull’investimento di acquisire i terreni, piuttosto che affittarli, peraltro a condizioni ben superiori a quelle di mercato per i terreni agricoli circostanti.

Molti dei 2.500 MW di grandi impianti pugliesi sorgono su aree originariamente considerate per l’eolico, quasi nessuno ha sfruttato le sinergie sulle connessioni per abbinare minieolici nei confini settentrionali degli impianti solari. Quasi nessuno ha pannelli montati su trackers, che seguendo gli spostamenti del sole consentono di produrre dal 20 al 30% in più di energia elettrica.

Energia incentivata, quindi molto ben pagata. Dunque, la colpa è di chi ha progettato e realizzato gli impianti più grandi, ma secondo noi c’è rimedio alla delusione degli attuali investitori.

Quello che in campagna, dove sono ubicati gli impianti, si definisce “rimboccarsi le maniche” o “sporcarsi le mani di fango”. Esercizio fisico, assai poco affine a banchieri e amministratori.

Porre attenzione, ripensare gli impianti per quello che sono, sistemi industriali da ottimizzare, presidiare, seguire, curare. E proprio dalla caratteristica più peculiare di tutti gli impianti a fonte rinnovabile, quella di essere relativamente piccoli, dispersi sul territorio, che si deve far leva: soluzioni basate sull’osservazione di ciascun impianto (non del manuale generico), che fanno leva sulle peculiarità locali, sul contributo di chi sul territorio ci vive.

Per esempio, molti proprietari di terreni coltivano anche i terreni limitrofi, dispongono di apparecchiature sofisticate e acqua: perché non affidare loro, dopo opportuna formazione, la manutenzione dell’erba e il lavaggio dei pannelli? Gli stessi tagli dell’erba e lavaggio dei pannelli devono essere fatti sulla base delle condizioni metereologiche, e non a intervalli regolari.

Le stringhe possono essere pazientemente riordinate per valorizzare le performance dei singoli pannelli, le cabine degli inverter possono essre opportunatamente ombreggiate per ridurre il carico di raffrescamento, e quindi aumentare l’efficienza di conversione.

Territori importanti

Parimenti, il miglior antifurto è un contatto frequente e informale sul territorio, è essere percepiti come concittadini dalle famiglie che vivono nei pressi dell’impianto, specie quando queste notano uno strano traffico notturno, è avere manutentori che vivono a pochi chilometri, e quindi contare su una vasta rete di conoscenti, amici e parenti che si trasformano in sorveglianti è avere familiarità con le autorità locali.

Tutto questo raramente rappresenta le priorità di asset managers e capi imprese. Ovviamente, a tutto ciò, si deve aggiungere il tempestivo accesso alla tecnologia, sistemi avanzati di diagnostica sulle condizioni degli impianti, teleconduzione efficace, presidio remoto ma attento, insomma tutto quello che i manuali riportano, pur senza fornire suggerimenti su come metterlo in pratica.

Comprendendo l’ovvio disappunto degli investitori che si attendono formule magiche valide sistematicamente su tutti gli impianti, siamo costretti a tornare ad alcuni fondamentali che si applicano a gran parte delle fonti rinnovabili: l’economia di scala conta meno della disponibilità ottimale della risorsa, che, essendo nel nostro Paese più frammentata che altrove, valorizza la peculiarità di essere tecnologie modulari.

Quindi, piuttosto di ripresentare schemi applicabili alle pianure sassoni o al deserto di Atacama o magnificare la velocità di giovani analisti nel maneggiare tavole di Excel, si deve valorizzare la dispersione, diventare cittadini locali e sfruttare il buon senso, contare più sulla qualità e l’esperienza di quegli ingegneri abituati a indossare tuta e impugnare cacciavite. In sintesi, per valorizzare gli asset, il motto dovrebbe essere: stay local, stay small.

I nostri nonni, e gli operatori storici degli impianti idroelettrici e geotermici, questo concetto l’hanno sempre messo in pratica: hanno investito tempo, attenzione, competenze e presenza vigile in quella ricchezza comune che oggi permette al Paese di generare il 40% dell’energia da fonti rinnovabili, in sicurezza e nel pieno rispetto degli interessi delle generazioni future.

Saremo in grado di lasciare ai nostri nipoti un sistema altrettanto efficace?

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul n.2/2017 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo:” Il bello del piccolo, il bello del locale”

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