Il ventennale del fantasma della batteria al magnesio italiana

Alcuni ritengono che il mondo dell’accumulo elettrico potrà essere rivoluzionato con batterie al sodio-magnesio, in grado di competere con quelle al litio. Ma nel nostro paese la ricerca iniziò nel 1997. Poi, come spesso accade in Italia, qualcosa bloccò questa innovazione nella sua fase prototipale. Quali sviluppi ora?

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I ricercatori dell’Empa, il laboratorio svizzero federale per la scienza e la tecnologia dei materiali, l’hanno annunciato pochi giorni fa: rivoluzioneranno il mondo dell’accumulo elettrico, realizzando batterie al sodio e al magnesio, in grado di competere con quelle al litio.

In particolare, spiega Elsa Roedern, «le ricerche sulle batterie al magnesio sono poche, perché questo materiale è molto difficile da usare in un accumulatore, per la scarsa propensione dei suoi ioni a muoversi. Però sarebbe il materiale ideale, perché è abbondantissimo, leggero, stabile atossico e, soprattutto, ogni ione magnesio trasporta due cariche, invece della singola del litio, quindi può accumulare il doppio di energia nello stesso volume».

Gli svizzeri non sono soli. Qualche mese fa un annuncio simile era arrivato dai ricercatori della Toyota, che prevedevano che tra 20 anni il magnesio sarà il “nuovo litio”.

A questo punto, però, il vecchio giornalista si ricorda di aver già scritto, tanto tempo fa, di una batteria al magnesio, già funzionante, realizzata e brevettata in Italia. Una ricerca su internet conferma che ciò avvenne nel 1997, grazie a due ricercatori dell’Università di Padova, Vito di Noto e Maurizio Fauri (che oggi lavora all’Università di Trento).

Che fine ha fatto allora questa invenzione che avrebbe potuto rivoluzionare il mondo delle energie rinnovabili già venti anni fa, e portare l’Italia all’avanguardia del settore dell’accumulo?

Dopo un ventennio è sempre al punto di partenza, ospitata nei laboratori universitari ancora allo stadio di prototipo funzionante, ma che, per essere industrializzato continua a necessitare di circa un milione di euro di investimento, un capitale ridicolo considerando gli sprechi a cui assistiamo ogni giorno, che però non si è mai materializzato.

La storia della batteria al magnesio di Di Noto e Fauri, è un caso emblematico di quanto sia difficile fare innovazione in Italia, ma anche di come il mondo della scienza e dell’industria sia tutt’altro che meritocratico: talvolta ad andare avanti non sono i migliori, ma piuttosto i primi ad arrivare sul mercato con un prodotto pronto e quando la nave è partita, poi, deviarla è tutt’altro che facile.

«La nostra batteria è tecnicamente pronta e ha già una densità di energia e una vita utile comparabili a quelle del litio. Perfezionando ulteriormente il catodo, si potrebbe andare anche oltre», ci dice Fauri. «I nostri problemi non sono stati tanto tecnici, quanto economici. Il brevetto è stato ceduto dall’Università di Padova a un gruppo di imprenditori che, investendo all’epoca circa 300 milioni di lire (circa 150mila €, ndr) nel progetto ne ha finanziato il perfezionamento in questi anni, mentre cercava il capitale e i partner industriali necessari a farne un prodotto commerciale».

Ma nonostante decine di contatti con possibili partner, in Italia e in mezzo mondo, la ricerca non ha avuto successo.

«Forse siamo arrivati nel momento sbagliato – dice Di Noto – agli inizi del XXI secolo le batterie al litio, dopo 15 anni di perfezionamenti, erano già in grande produzione per i dispositivi elettronici, avevano ancora grandi margini di miglioramento e riduzione dei costi, mentre di auto elettrica di massa non si parlava ancora. Quindi non si avvertiva la necessità di sviluppare prodotti alternativi. Tanto più che in quegli anni andavano molto di moda le celle a combustibile, per ‘l’economia all’idrogeno’ e tutti i finanziamenti di ricerca finivano lì».

A questo trend generale l’Italia ha aggiunto del suo con la consueta mancanza di lungimiranza nell’assegnazione dei fondi pubblici, le lentezze burocratiche e l’indisponibilità delle nostre industrie verso la ricerca di medio termine su prodotti tecnologicamente avanzati.

«E spesso le nostre richieste di fondi ad enti pubblici venivano rifiutate per le motivazioni più strane. Una volta, per esempio, dissero che non potevano finanziarci “perché la ricerca è troppo applicativa”, come fosse una colpa puntare a realizzare rapidamente prodotti utili», ricorda Fauri.

A causa dello scarso interesse intorno alla batteria al magnesio, uno dopo l’altro i privati detentori del brevetto si sono ritirati dall’impresa e alla fine ne è rimasto uno solo che continua a crederci e a fornire il denaro per portare avanti il perfezionamento del dispositivo nei laboratori universitari di Padova e Trento. Ma, dati i fondi modesti, il lavoro prosegue lentamente e con attrezzature inadeguate.

A causa di ciò l’accumulatore al magnesio ancora oggi non ha superato lo stadio di batteria a bottone, non avvicinandosi, per esempio, alle dimensioni per alimentare un’auto elettrica e dimostrare la sua superiorità. 

«E pensare che un accumulatore al magnesio, per la sua caratteristica di poter fornire molta potenza senza surriscaldarsi, sarebbe perfetto per costruire batterie di grandi dimensioni, là dove il litio, invece, deve essere suddiviso in piccole celle a basso voltaggio collegate fra loro, per evitare che prenda fuoco, aumentando i costi e diminuendo l’efficienza», dice Fauri.

Ma purtroppo per procedere con l’industrializzazione del dispositivo, servirebbe ben altro che una batteria a bottone.

«Non è un caso che siano serviti 15 anni per perfezionare gli accumulatori al litio: l’industria prende in considerazione l’avvio di una nuova produzione solo se i ricercatori hanno presentano e testato decine di prototipi affidabili, di dimensioni simili a quelle dei prodotti commerciali e realizzati con procedure che garantiscano la costanza dei risultati», dice Di Vito

È una fase di passaggio fra laboratorio e industria molto delicata e complessa, che però in alcune nazioni viene semplificata affrontandola con razionalità ed efficienza.

«In Germania, ad esempio, Stato e imprese si mettono d’accordo su quali siano le linee di ricerca più importanti da seguire per il prossimo futuro, e investono su quelle, così che poi quanto esce dai laboratori sia pronto per entrare nell’industria al momento giusto. In Italia lo Stato finanzia la ricerca senza nessuna strategia, e poi, cosa che lascia sempre a bocca aperta i miei colleghi stranieri, quello di buono che la ricerca produce resta inutilizzato. È accaduto per la batteria al magnesio, ma anche per altre decine di altri prodotti, finanziati e dimenticati», aggiunge Di Vito.

E adesso, 20 anni dopo il brevetto della batteria al magnesio (che ora è in scadenza e va rinnovato) la situazione del mercato è diventata anche più dura.

«L’industria delle batterie al litio è ormai gigantesca, e a questo punto ogni possibile alternativa, anche se basata, come la nostra, su un elemento abbondante, economico e dalle caratteristiche elettrochimiche migliori, è difficile che venga rapidamente presa in considerazione, considerati gli enormi investimenti che richiederebbe la creazione di una filiera dedicata all’estrazione e alla fabbricazione delle nuove materie prime e per la riconversione delle linee di produzione: chi produce batterie al litio, insomma, ha tanto da ammortizzare, prima di passare ad altro», dice Fauri

Al tempo stesso, però nuovi fattori riaccendono le speranze.

«Ci si è accorti che il litio non basterà per sostenere la rivoluzione del trasporto elettrico: è relativamente raro e concentrato in pochi paesi, puntare solo su questo elemento espone a grandi rischi economici e geopolitici, un po’ come il petrolio. Inoltre servono batterie più sicure di quelle al litio, come hanno dimostrato gli incendi avvenuti in auto, aerei e telefonini: la nicchia degli impieghi in massima sicurezza è già un ambito in cui servirebbero alternative al litio». spiega Di Noto

«Questa nicchia potrebbe far partire l’industria, e, creata la filiera, i prezzi si abbasserebbero velocemente, permettendo di penetrare in altri settori. Per cui, da alcuni anni l’interesse per ricerche su batterie alternative al litio è cresciuto molto, e fra queste quelle al magnesio sono in prima fila. I paesi lungimiranti, quindi Italia esclusa, si stanno preparando a questa nuova svolta e in molti laboratori si lavora su questa tecnologia, come dimostrano, fra l’altro, i numerosi inviti all’estero che ricevo per parlare dei nostri risultati», aggiunge il ricercatore.

Forse allora il momento della batteria al magnesio italiana è finalmente giunto, solo che, probabilmente non sarà più italiana.

«Ci abbiamo provato in tutti i modi a svilupparla qui, senza riuscirci, e se aspettiamo ancora, altri ci passeranno avanti», conclude Fauri.

«Così, probabilmente non sarà il nostro paese a godere dei frutti di un’invenzione nata e sviluppata nei nostri atenei: recentemente dalla Francia ci è arrivata una richiesta di lavorare sul nostro prototipo per industrializzarlo. Al momento quindi sembra probabile che una futura industria di batterie al magnesio basate sul nostro lavoro, nascerà fuori d’Italia».

Un’altra occasione d’oro, anzi di magnesio, sprecata per il nostro paese.

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