Da “sporca” a verde, come la finanza impara a gestire i rischi climatici

Sono sempre di più i fondi istituzionali che inseriscono il carbon risk nelle scelte d’investimento, come evidenzia il Global Climate Index 2017. L’Europa è leader in questa speciale classifica, mentre la Cina è tra i Paesi peggiori quanto alla trasparenza del suo portafoglio globale.

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Quanto conta il cambiamento climatico nelle decisioni di investimento?

Valutare i rischi finanziari associati al surriscaldamento globale non è un’operazione scontata, anche se sono sempre di più i fondi istituzionali che si preoccupano di come gestire i loro portafogli nell’ambito della transizione energetica verso le fonti rinnovabili, secondo il Global Climate Index 2017 (allegato in basso).

L’indice Global Climate 500 è stato elaborato da Asset Owners Disclosure Project (AODP), l’organizzazione internazionale no-profit che analizza e valuta il comportamento di centinaia di investitori in tutto il mondo, attribuendo punteggi dalla tripla A alla D, mentre il segno X è riservato a quei fondi bollati come “laggards” (ritardatari), perché finora hanno ignorato i possibili impatti dei cambiamenti climatici.

Rilevanza dell’economia verde nelle strategie d’investimento, capacità di gestire i rischi ambientali (carbon risk management), chiarezza e trasparenza delle informazioni: l’indice ha esaminato i 500 maggiori “asset owner” mondiali tra fondi sovrani, fondi pensione e assicurativi, fondazioni, che nel complesso valgono circa 40.000 miliardi di dollari.

Secondo AODP, i rischi climatici meritano un’attenzione speciale, perché riguardano tutti i settori economici e quindi non possono essere diversificati, come si può fare ad esempio con l’incognita-paese, indirizzando il denaro verso nazioni ritenute più sicure dal punto di vista geopolitico.

Ci colleghiamo così al noto problema degli stranded asset (vedi anche QualEnergia.it), definizione che include gli investimenti sempre più incerti sul medio-lungo termine perché riguardano settori in difficoltà se non già in declino, o che molto probabilmente sono destinati a perdere profitti.

Parliamo soprattutto delle infrastrutture dei combustibili tradizionali, come centrali a carbone, miniere, piattaforme petrolifere. Infatti, molte utility stanno progressivamente riducendo gli investimenti fossili, spostandoli verso le tecnologie pulite.

Un esempio recentissimo è il piano industriale 2017-2018 del colosso svedese Vattenfall; altre compagnie, invece, compresa la nostra ENI, sembrano più incerte sul futuro green delle proprie attività (ENI prova a tingersi di verde, ma sulle rinnovabili ci arriva “tardi e male”).

L’indice AODP allora è un termometro della finanza verde globale, perché aiuta a capire chi sta investendo di più e nel modo migliore nelle fonti rinnovabili, realizzando quel vero disimpegno dalle fossili che spesso è più una bandiera di facciata che un obiettivo perseguito con determinazione.

Secondo l’organizzazione no-profit, il 60% dei fondi valutati – 299 istituzioni per complessivi 27.000 miliardi di dollari – si sta impegnando in misura maggiore o minore a ponderare i rischi climatici nella suddivisione dei portafogli azionari e obbligazionari. Intanto sono diminuiti del 18% i fondi laggard, passando da 246 a 201 nel 2016-2017.

Per la prima volta, AODP ha stilato una classifica con i 50 principali gestori privati di fondi (asset manager) e anche in questo caso la tendenza è analoga a quella riscontrata per i soggetti istituzionali: cresce l’attenzione verso il carbon risk finanziario.

Tornando agli investitori istituzionali, Asset Owners Disclosure Project ha rilevato che il 42% dei fondi ha incorporato il cambiamento climatico nella pianificazione delle sue attività; il 13% è abituato a calcolare le emissioni di CO2 del portafoglio gestito, anche se la valutazione dei rischi degli stranded asset resta un’operazione molto più complessa e quindi marginale (6% dei fondi).

La tabella qui sotto evidenzia la parte più alta della graduatoria: si vede chiaramente che le nazioni più rappresentate appartengono all’Europa settentrionale e al mondo anglosassone.

Al contrario, la Cina figura tra i paesi peggiori quanto a trasparenza degli investimenti e riconoscimento dei rischi climatici, nonostante le più recenti dichiarazioni dei suoi governanti (vedi QualEnergia.it), che si contrapponevano alle scelte pro-fossili di Donald Trump.

Il 67% dei fondi istituzionali cinesi, si legge nel Global Climate Index, rientra nella categoria laggard, per un totale di 2.600 miliardi di dollari investiti. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, come sintetizza il grafico sotto, la proporzione dei fondi poco attenti all’ambiente è molto elevata.

L’Europa, secondo gli esperti dell’organizzazione no-profit, è leader della finanza verde globale, intesa come capacità di gestire il fattore di rischio climatico.

Dei 34 migliori fondi globali con punteggio AAA, 20 sono europei; in Gran Bretagna e Francia, oltre che in Scandinavia, sono pochissimi i fondi laggard, mentre in Germania sono ancora moltissimi (68% del totale), confermando così quelle ambiguità della transizione energetica che abbiamo approfondito in altre occasioni (Germania, le strategie delle utility contro la generazione distribuita).

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