Dalle alghe alla perovskite, le promesse non ancora mantenute dell’energia

Una nuova ricerca giapponese mostra l’enorme potenziale delle micro-alghe marine per produrre biocarburante, anche se l’industrializzazione di questi processi appare molto lontana. Qualche riflessione sulle difficoltà di passare dai laboratori al mercato, con l’analisi di GTM Research.

ADV
image_pdfimage_print

È possibile coltivare alghe su vasta scala, per sintetizzare un combustibile ecologico a costi competitivi con il gasolio tradizionale?

La risposta, almeno per il momento, porta verso un “no” piuttosto secco, anche se le sperimentazioni di laboratorio stanno proseguendo.

Possiamo allargare la domanda e chiederci, più in generale, qual è il confine tra l’innovazione tecnologica in grado di varcare la soglia del mercato con prodotti di massa, e le ricerche destinate a rimanere inutilizzate, anche se magari sulla carta sono più che promettenti.

Il dubbio è frequente nel campo dell’energia, pensiamo ad esempio a tutti gli studi recenti che hanno annunciato qualche rivoluzione per i moduli solari alla perovskite (vedi QualEnergia.it). Siamo però così certi che questo materiale soppianterà il silicio nell’industria del fotovoltaico? O tutto finirà in una bolla d’investimenti non remunerativi?

Tornando alle alghe, da diversi anni il settore dei biocombustibili avanzati, definiti “di seconda generazione” perché ottenuti da piantagioni non alimentari, sta cercando di trovare il suo spazio per fare concorrenza al biodiesel tradizionale, ricavato ad esempio dalla soia e dalla colza.

I biofuel di “prima generazione”, come sappiamo, in Europa sono da tempo oggetto di dure critiche da parte degli ambientalisti, ormai recepite dalle stesse istituzioni, UE in primis. Diversi studi scientifici hanno evidenziato che il loro impatto ambientale è molto più rilevante di quanto si pensasse inizialmente, perché parliamo di biomasse vergini di tipo alimentare, che richiedono ampi disboscamenti per le coltivazioni (vedi QualEnergia.it).

Impiegare le micro-alghe marine sembrava la soluzione ottimale: si possono coltivare tutto l’anno senza “sprecare” suoli agricoli né acqua potabile, crescono molto più velocemente delle piante terrestri, hanno bisogno solamente di luce, acqua salmastra, anidride carbonica e una piccola quantità di minerali, contengono elevate percentuali di lipidi da trasformare in oli.

Un gruppo di scienziati giapponesi della Kobe University ha condotto nuovi test metabolici (dynamic metabolic profiling) su una specie di alga, Chlamydomonas sp. JSC4, scoprendo così che il metabolismo delle celle cambia radicalmente con l’aggiunta di acqua marina (1-2%) nel liquido di coltura.

Dopo una settimana d’incubazione, oltre il 45% del peso delle celle era rappresentato da lipidi, al contrario di quanto avveniva nelle soluzioni prive d’acqua salmastra, in cui prevaleva la produzione di carboidrati (vedi link in basso con la ricerca completa).

Tuttavia, tra fase di test e opportunità di lancio-commercializzazione delle alghe energetiche, rimane un fossato da colmare. La svolta tecnologica (breakthrough) promessa dalle micro-alghe non è ancora arrivata, quindi è utopico pensare di riempire, in tempi ragionevolmente brevi, i serbatoi di milioni di veicoli con bio-fuel proveniente da colture marine capaci di estinguere la nostra “sete” di carburante.

A questa conclusione è arrivata GTM Research, che ha pubblicato un’analisi in cui si parla della “grande bolla del biofuel da alghe” (great algae biofuel bubble) con un lungo elenco di aziende che stanno cercando di abbandonare le ricerche sui biocombustibili a favore di altri comparti, ad esempio cosmetica, alimenti funzionali, pigmenti e così via.

Quella delle alghe è una “dura lezione”, si legge nell’articolo firmato da Eric Wesoff, perché le previsioni sulla produzione di biocarburante ricavato dalle colture marine sono state clamorosamente smentite: un miliardo di galloni avrebbe dovuto essere la capacità produttiva globale nel 2014, di cui mai s’è vista traccia.

La tesi riportata da GTM Research, in sintesi, è che le decine di milioni di dollari investiti finora nelle ricerche sulle micro alghe, soprattutto attraverso fondi venture capital per finanziare le imprese nascenti, sono servite a poco o nulla, se non ad alimentare una fiducia irrazionale nella possibilità di competere in pochi anni con l’industria dei combustibili fossili. Ci troviamo, quindi, nel classico caso in cui il clamore iniziale (hype) si è tramutato in una delusione.

ADV
×