Ma almeno ci serve il gasdotto TAP?

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Impatto ambientale a parte, il gasdotto lascia molti dubbi. Davvero migliorerà la sicurezza energetica? Finiremo per pagarlo in bolletta come il rigassificatore “strategico” e poi inutilizzato di Livorno? Ma, soprattutto, ha senso puntare su investimenti trentennali sul gas in un mondo dell'energia che cambia così in fretta?

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Un’opera “strategica”, ma che, se si va a guardare bene, ha molti rischi e incognite.

Il gasdotto TAP è un investimento sulla cui utilità è lecito avere dubbi. E questo a prescindere dagli aspetti ambientali, contestatissimi, che stanno portando in questi giorni a un duro scontro tra Regione Puglia e Comuni salentini e comitati di cittadini, da una parte, e Governo dall’altra.

L’obiettivo della nuova condotta, come noto, è variare le rotte d’importazione del metano, riducendo la dipendenza dalla Russia e dagli altri fornitori attuali.

Se dal punto di vista della strategia geopolitica questo potrebbe avere senso, la nuova linea però passa da Paesi tutt’altro che stabili.

Sembra poi improbabile che, grazie alle nuove infrastrutture, l’Italia diventi un hub del gas per l’Europa, come da aspirazione del nostro attuale Governo (e dei precedenti da Monti in poi): la prima a non volerlo è la Germania, che ha appena deciso il raddoppio del North Stream che la collega direttamente alla Russia.

Al momento, inoltre, abbiamo già una capacità di importazione di gas doppia rispetto ai consumi, scesi ai livelli di 10 anni fa e per i quali non si prevede una ripresa significativa.

Poi c’è la transizione energetica: ha senso pianificare un’infrastruttura dalla vita utile di almeno 30 anni, senza pensare a come cambierà il mondo dell’energia in questo lasso di tempo?

La riposta, per noi scontata, è “no”. Anche alla luce della velocità della rivoluzione che stiamo vivendo, centrata su rinnovabili, efficienza energetica, sistemi di accumulo, reti intelligenti e generazione distribuita.

Infine i conti: ai prezzi del gas attuali e prevedibili, c’è qualche dubbio che il mega-investimento sia sostenibile economicamente.

Questo, oltre a porre in forse un possibile impatto positivo sui prezzi del gas in Italia, dovrebbe metterci in guardia sul rischio che i soldi per questa iniziativa privata prima o dopo vengano presi dalle bollette.

Non sarebbe la prima volta che succede, come ci insegna la storia del rigassificatore Olt di Livorno, altra infrastruttura “strategica” per l’approvvigionamento del metano rimasta poi completamente inutilizzata e di cui si è dovuto fare carico il pubblico.

Queste in sintesi le idee che ci siamo fatti provando a rispondere alla domanda “ma questo TAP, poi, ci serve davvero?”

Ma partiamo dall’inizio.

L’opera

I tubi del Trans Adriatic Pipeline porteranno 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno dai giacimenti azeri del Mar Caspio verso l’Europa e l’approdo della tratta finale offshore è previsto in località San Foca, Salento, protagonista dei fatti di cronaca di questi giorni.

La linea correrà per 870 km dalla Grecia, attraversando l’Albania e l’Adriatico con un tratto sottomarino di un centinaio di chilometri. TAP inoltre dovrà collegarsi al gasdotto TANAP (Trans Anatolian Natural Gas Pipeline), infrastruttura di 1.850 km in territorio turco, la cui entrata in esercizio è stata fissata al 2018. Le due linee si uniranno a Komotini, sul confine tra Grecia e Turchia.

TANAP, a sua volta, si collegherà alla tratta SCP (South Caucasus Pipeline) che passa in Georgia e Azerbaijan fino al Mar Caspio e ai suoi giacimenti di gas.

Le società interessate sono sei: oltre alla nostra Saipem, che ha rilevato il 20% del pacchetto dalla norvegese Statoil, troviamo BP e Socar, entrambe con il 20%, poi la belga Fluxys, la spagnola Enagas e la svizzera Axpo, tutte con percentuali inferiori.

L’investimento per il solo TAP è stato stimato in circa 4,5 miliardi di euro, ma la cifra complessiva per l’intero corridoio dovrebbe aggirarsi sui 45 miliardi.

L’opera è stata finanziata con l’aiuto della Banca Europea per gli Investimenti, come “Progetto di Interesse Comune”, altri soldi pubblici verranno dalla partecipazione di Snam, che si rivarrà in piccola parte sulle bollette degli italiani.

Diversificare gli approvvigionamenti, ma come?

Come detto, motore primo della partecipazione italiana al progetto è la volontà di migliorare la sicurezza energetica, riducendo la dipendenza dalla Russia e da altri fornitori storici come la Libia e l’Algeria.

“Da questo punto di vista il TAP può essere strategico per un Paese come il nostro, che dipende dall’import per il 90% dei consumi di gas, anche se non abbiamo un problema di approvvigionamento al momento, avendo una capacità di importazione di circa 140 miliardi di metri cubi l’anno, a fronte di un consumo di circa 70”, spiega a QualEnergia.it Davide Tabarelli, analista di Nomisma Energia.

“L’obiettivo – continua – è fare dell’Italia un hub del gas, con un proprio mercato spot.”

Gli fa eco il professor Luigi De Paoli, docente di economia dell’energia alla Bocconi: “Strategicamente – spiega a QualEnergia.it – il TAP può anche avere senso. Abbiamo capacità di importazione già più che sufficiente, ma non è un male ridurre la dipendenza da Paesi instabili come la Libia e possibilmente instabili come l’Algeria. Anche l’import dalla Russia dovrebbe essere limitato, secondo me al 30-40%, anche se è un fornitore affidabile che ha tutto l’interesse a continuare a esserlo.”

Peccato che anche il nuovo gasdotto che dovrebbe approdare in Puglia passi per nazioni che potrebbero dare qualche preoccupazione: “Attraversa Georgia, Azerbaijan, Turchia. Paesi a gestione autoritaria, per usare un eufemismo, con una situazione politica interna e con rapporti con l’Europa tutt’altro che rassicuranti”, commenta De Paoli (aggiornamento al 18 aprile: si veda a proposito la nuova inchiesta del L’Espresso su TAP e interessi del clan Erdogan).

Il professore della Bocconi è poi molto scettico su un possibile ruolo centrale dell’Italia nel mercato europeo del gas, uno dei motivi per cui il Governo tiene tanto al TAP e ad altre infrastrutture gasifere.

“Il ruolo di hub è solo un’aspirazione italiana – commenta De Paoli –  nei fatti non lo abbiamo mai svolto e le probabilità di svolgerlo in futuro sono vicine a zero. Il mercato del gas europeo più importante è nel centro Europa, in primis in Germania. La Francia, che ha molto nucleare, non ne ha grande bisogno.”

E la Germania, continua De Paoli “è la prima a non volere che l’Italia diventi un hub europeo del gas.”

Il North Stream, che va verso il raddoppio (progetto dal quale la nostra ENI ha appena annunciato il ritiro), evita repubbliche baltiche e Polonia, “Germania e Russia non vogliono altri tra i piedi. Anche il rischio Ucraina resta all’Italia e il South Stream è stato boicottato in primis dall’Europa”, aggiunge l’esperto.

Economicamente sostenibile?

Geopolitica a parte, il gigantesco progetto TAP riuscirà a portare in Italia gas a prezzi competitivi?

“Ce lo auguriamo – risponde Tabarelli – i 10 miliardi di metri cubi di gas annui sono già stati venduti, con contratti ancorati a prezzi spot”. Per l’analista di Nomisma Energia però non mancano i rischi: “potrebbe essere un azzardo: parliamo di un’infrastruttura enorme, dal costo di 45 miliardi, che attraversa diversi Paesi.”

“Ai prezzi di oggi, 4,5 euro milione di BTU costo cif, non sembrerebbe molto conveniente – fa eco De Paoli – ma i prezzi delle materie prime sono oscillanti. Chi ha sottoscritto i contratti presumibilmente ha fatto i suoi conti, ma su investimenti del genere c’è sempre il rischio che finiscano poi nella bolletta dei consumatori”.

Qui il professore della Bocconi ricorda il precedente di un’altra infrastruttura gas “strategica”, il rigassificatore Olt di Livorno. Realizzato da privati, ma rimasto di fatto inutilizzato, il rigassificatore è stato soccorso da una sorta di assicurazione, finanziata dalle bollette, che copre gran parte dei mancati incassi in caso di inattività: nel 2015 ci è costato 83 milioni di euro. “Bisogna fare attenzione e non lasciarsi prendere dalla retorica”, avverte De Paoli.

La domanda e la transizione energetica

Infine, un interrogativo sull’opportunità del nuovo gasdotto ci viene dall’andamento della domanda di gas.

Come abbiamo riportato di recente, malgrado la leggera ripresa del 2016, dopo il calo degli ultimi anni dovuto a crisi economica, rinnovabili ed efficienza energetica, siamo ai livelli di 16 anni fa: consumiamo 70,9 miliardi di metri cubi l’anno, 15,3 miliardi di metri cubi in meno che nel 2005.

Aggiunge il docente di economia dell’energia: “La domanda potrà crescere, ma la stessa Snam non si aspetta un risalita rilevante, la capacità di importazione attuale è più che sufficiente. La diversificazione è una sorta di assicurazione: se tengo l’auto sempre sempre in garage ha senso pagarla? Potrebbe valere la pena, ma non tanto per un eventuale aumento della domanda, bensì per l’eventuale necessità di sostituire parte dell’offerta.”

Dato che un’opera come la TAP ha una vita utile di almeno 30 anni e vista la transizione energetica in atto, inoltre, bisognerebbe chiedersi se fra un 10-20 anni avremmo ancora bisogno di così tanto gas.

“C’è la speranza che l’economia si riprenda e la transizione energetica potrebbe non essere così veloce”, risponde Tabarelli.

Ponte o freno?

Non c’è il rischio che, una volta investito così tanto nel gas, ci si trovi a dover frenare rinnovabili ed efficienza energetica, la cui avanzata potrebbe trasformare la scommessa in nuovi gasdotti in un buco nell’acqua?

Qualcosa di simile è avvenuto con i cicli combinati a gas, realizzati all’inizio degli anni 2000 e poi negli ultimi anni mandati fuori mercato anche dal fotovoltaico e dall’eolico (con l’eccezione di una ripresa negli ultimi mesi, dovuta a circostanze particolari).

Molti dal fronte rinnovabilista hanno denunciato una stretta correlazione tra la campagna contro il costo delle rinnovabili, sfociata nella sospensione degli incentivi al fotovoltaico e nel giro di vite sulle altre FER, e i danni economici che le nuove rinnovabili hanno causato a chi aveva investito nelle nuove centrali a gas e poi si è trovato a vederle sottoutilizzate, proprio per la concorrenza di FV ed eolico, che sulla borsa elettrica riscono ad offrire a prezzo marginale nullo.

“Non credo in questa contrapposizione tra gas e rinnovabili – ci risponde De Paoli – il gas, fonte flessibile e meno climalterante di altre, è complementare alle FER non programmabili e in Italia abbiamo 40 TWh di carbone da sostituire.”

Ma il gas fungerà da ponte verso un sistema carbon free o su questo ponte rischiamo di restare bloccati, anche a causa di investimenti come il TAP?

Dipenderà dalla velocità con cui scenderanno i prezzi di rinnovabili e storage, concordiamo con De Paoli, che però su questo è meno ottimista di noi e fa notare che “la curva di apprendimento del fotovoltaico rallenterà, mentre per lo storage bisognerà valutare l’adeguatezza tecnologica a sostituire fonti di flessibilità come il gas”.

D’altra parte, facciamo notare citando i casi del South Australia e di Aliso Canyon in California, già ora iniziano ad esserci progetti di rinnovabili + storage su una scala non dimostrativa capaci di sostituire impianti a gas. Siamo nel 2017 e solo sette anni fa tutto ciò era inimmaginabile: come sarà il sistema energetico nel 2047, quando il TAP sarà solo a circa la metà della sua vita utile?

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