Anche Deutsche Bank disinvestirà dal carbone. Stranded asset all’orizzonte?

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Il colosso bancario tedesco ha annunciato lo stop a nuovi finanziamenti destinati a centrali termoelettriche e attività minerarie legate al carbone. Le ragioni finanziarie dietro il disinvestimento dai combustibili tradizionali, annunciato da oltre 700 istituzioni in tutto il mondo.

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Disinvestire dalle fonti fossili – se qualcuno aveva ancora qualche dubbio – non è più una moda passeggera seguita da qualche gruppo ecologista, ma una tendenza mondiale che continua a crescere.

Proprio in questi giorni, Deutsche Bank ha comunicato che smetterà di sostenere la fonte fossile più inquinante: il colosso bancario tedesco e le sue sussidiarie, si legge in una nota, non finanzieranno più la costruzione di nuove centrali a carbone né l’espansione delle connesse attività minerarie.

Perché disinvestire

La banca, inoltre, ridurrà progressivamente la sua esposizione finanziaria nelle compagnie carbonifere. Questa decisione, termina la nota, è stata presa per onorare gli accordi di Parigi, grazie all’impegno sottoscritto con oltre 400 organizzazioni pubbliche-private con l’obiettivo di limitare il surriscaldamento terrestre entro i due gradi centigradi, rispetto all’età preindustriale.

La mossa di Deutsche Bank va letta anche in una situazione di “profondo rosso” per i conti dell’istituto  di credito, che ha chiuso il 2016 con una perdita netta pari a 1,4 miliardi di euro, ampiamente superiore alle attese, dovuta al calo dei ricavi e ai costi legali e di ristrutturazione.

Dietro le strategie economiche di Deutsche Bank e delle altre istituzioni pro-disinvestimento dai combustibili fossili, ci sono comunque molteplici ragioni. Non solo quindi motivi etico-sociali o un afflato ambientalista, ma considerazioni prettamente finanziarie.

Business is business e il carbone appare sempre più come una scelta anacronistica, al pari del petrolio e, in misura minore, del gas naturale e dello stesso nucleare. Per quanto concerne l’atomo, ricordiamo, per esempio, quanti problemi sta avendo la Francia a sviluppare i reattori EPR di ultima generazione, con ritardi ed extra costi a Flamanville. Per non parlare dei problemi legati ai diversi fermo-impianti di queste ultime settimane.

Il timore di molti analisti è che all’orizzonte ci sia una bolla del carbonio, che possiamo così spiegare in sintesi: molti dei capitali investiti nelle infrastrutture tradizionali dell’energia, come centrali termoelettriche, miniere, oleodotti, eccetera, rischiano di rimanere intrappolati in “stranded asset”, cioè dei beni diventati poco remunerativi, troppo costosi da mantenere e non più in grado di garantire profitti.

Secondo le stime più aggiornate del movimento Fossil Free, sono quasi 700 le istituzioni nel mondo che hanno iniziato a disinvestire in tutto o in parte dai combustibili tradizionali (gas, carbone, petrolio), per un valore complessivo che supera 5.000 miliardi di dollari.

Ed è sempre di questi giorni la notizia che l’Irlanda potrebbe diventare il primo paese a eliminare tutti gli investimenti fossili dal suo fondo sovrano, sulla scia del voto favorevole in parlamento; parliamo dell’Ireland Strategic Investment Fund il cui ammontare è di circa 8 miliardi di euro.

Le vie della transizione energetica

La transizione energetica verso le fonti rinnovabili, come abbiamo osservato tante volte, richiede il graduale abbandono del carbone dal mix elettrico. Il passaggio, però, è per nulla scontato: vediamo quante difficoltà sta incontrando la Germania, che da un lato sta spingendo molto sull’eolico (anche offshore) e il fotovoltaico, dall’altro continua a dipendere per il 40% dal carbone per la sua produzione di energia.

Dalla Gran Bretagna sono arrivati numeri di segno opposto, con un boom delle rinnovabili e del gas naturale, a scapito della fonte ritenuta più “sporca” ed entrata in una crisi che pare irreversibile, anche per effetto della carbon tax inglese che sta notevolmente penalizzando l’output delle centrali più obsolete, destinate alla prossima chiusura.

Così in Europa, nel 2016, c’è stato un netto calo della generazione a carbone a tutto vantaggio del gas (coal-gas switching) determinato da una serie di fattori, tra cui le dinamiche dei rispettivi prezzi e la concorrenza delle tecnologie pulite, con il risultato di far diminuire del 4,5% le emissioni di CO2 in confronto al 2015.

Intanto la Cina, che pure è sempre legatissima a questo combustibile fossile per soddisfare i suoi consumi energetici, di recente ha annunciato la sospensione di un centinaio di progetti per nuove centrali a carbone (150 GW complessivi di potenza installata in meno).

Anche il governo indiano sta avendo qualche dubbio sulla necessità di costruire altri impianti termoelettrici negli anni a venire, orientandosi piuttosto sullo sviluppo delle rinnovabili e sull’ampliamento delle linee di trasmissione, per evitare future congestioni di elettricità verde.

Rischi per la finanza verde

Negli Stati Uniti, invece, il disinvestimento dalle fonti convenzionali rischia di essere messo in un angolo dalla politica energetica di Donald Trump, che ha già cominciato a “resettare” le misure salva-clima di Obama e ha dato nuovo impulso alla realizzazione del contestato oleodotto Keystone XL, che trasporterà il greggio estratto dalle sabbie bituminose canadesi.

Certo, il quadro degli investimenti mondiali nella green economy resta difficile da prevedere con accuratezza. Il World Economic Forum, per esempio, qualche settimana fa notava che il denaro destinato all’economia verde rappresenta ancora le briciole di quello complessivamente investito.

Due forze opposte si stanno scontrando: da un lato, il mercato globale delle rinnovabili, sospinto dai costi in picchiata delle tecnologie pulite, diventate sempre più competitive in diverse aree geografiche rispetto ad altre fonti di generazione elettrica. Dall’altro lato, le resistenze dell’industria energetica più conservatrice, che cercherà di guadagnare fino all’ultimo biglietto verde possibile dai suoi asset tradizionali.

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