Le strategie climatiche di lungo periodo e l’approssimazione italiana

Predisporre strategie energetico-climatiche al 2050 significa per un paese avere obiettivi e percorsi chiari da attuare con specifiche politiche. Alcuni paesi europei si sono mossi in questa direzione, mentre in Italia prevalgono ancora posizioni esitanti e confuse, se non perfino contraddittorie. L’editoriale di Gianni Silvestrini.

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In Italia l’Accordo sul clima di Parigi è come se non fosse mai entrato in vigore. Mentre nel mondo molte nazioni, città, imprese hanno accelerato il loro impegno, da noi tutto tace.

Anzi, il nostro paese riafferma una posizione difensiva rispetto agli obbiettivi proposti dalla UE al 2030. Ponendoci così più vicini alla carbonifera Polonia che alle posizioni della Germania e della Francia.

E quando si decide di intervenire, lo si fa in maniera maldestra come ci ricorda la proposta di rivisitare la SEN coinvolgendo un consulente esterno con potenziali conflitti di interesse, invece di utilizzare Enea, Rse e Ispra. E, soprattutto, senza prevedere un’ampia consultazione pubblica.

Per di più, mentre il MiSE si avvia su questa strada, il Ministero dell’Ambiente lavora (?) alla strategia climatica. Insomma, una bella confusione, dettata da mancanza di chiarezza, timidezza politica e assenza di regia.

E così, molto opportunamente, il prossimo 25 gennaio il Coordinamento FREE terrà a Roma una conferenza stampa alla Camera per riflettere criticamente sull’attuale impostazione e per avanzare una proposta sul modello partecipativo e sulle linee guida che dovrebbero ispirare la strategia climatica.

L’avvio di una seria politica di contrasto al riscaldamento del pianeta può infatti rappresentare una straordinaria opportunità per modernizzare il paese e rilanciare l’economia, sollecitando cambiamenti profondi in molti settori

Pensiamo, ad esempio, agli obiettivi al 2030 nei settori non ETS che implicano una riduzione delle emissioni del 18% rispetto ai valori attuali. Un risultato ottenibile solo con un salto di qualità nei comparti dell’edilizia (riqualificazione spinta di interi quartieri) e trasporti (decollo della mobilità elettrica), che negli ultimi 25 anni non hanno registrato un calo delle emissioni.

E un analogo colpo d’ala sarà necessario per coprire il 50% della domanda elettrica al 2030 con le fonti rinnovabili.

Ma una riflessione critica, un rilancio della progettualità sono necessari non solo per raggiungere gli obiettivi previsti per la fine del prossimo decennio, ma anche per riflettere sui cambiamenti a lungo termine ed evitare scelte dannose.

Non a caso, l’Accordo sul Clima prevede la predisposizione di efficaci strategie di decarbonizzazione al 2050.

Al momento, anticipando i tempi, cinque paesi (Usa, Canada, Messico, Germania e Francia) hanno già depositato i propri documenti presso il Segretariato.

Altre realtà avevano già elaborato propri scenari a metà secolo. Così nel 2011 l’Unione Europea aveva predisposto la “Energy Roadmap 2050” che prevedeva una riduzione delle emissioni climalteranti tra l’80 e il 95% rispetto al 1990. 

Il Regno Unito con il Climate Change Act del 2008 si era già impegnato nel 2008 ad un taglio dell’80%. E i governi di Svezia e Danimarca vorrebbero diventare totalmente “Fossil Free” entro il 2050.  

Ma perché è importante capire come e dove ridurre le emissioni sul lungo periodo?

Innanzitutto per avere la consapevolezza dell’ambizioso percorso da compiere, delle implicazioni per i vari comparti, degli investimenti da evitare.

Il cambiamento che abbiamo di fronte non ha infatti eguali nella storia dell’umanità. In un terzo di secolo le fonti fossili, che al momento garantiscono il 78% dei consumi mondiali e l’81% di quelli italiani, dovrebbero avviarsi verso un uso residuale. La necessità di questa rapida retromarcia è difficile da interiorizzare e ha notevoli implicazioni.

Prendiamo il caso del metano. Se al 2050 i consumi di gas dovessero azzerarsi, o anche ridursi solo dell’80%, la costruzione di molti nuovi gasdotti diverrebbe uno emblematico e costoso esempio di investimenti inutili. 

E ci sono anche riflessi interni. Non a caso i gestori delle infrastrutture inglesi di trasporto di metano hanno valutato quattro possibili scenari di decarbonizzazione al 2050.

Tornando all’elaborazione degli scenari climatici, va sottolineata l’importanza del metodo del “backcasting”, cioè dell’esplorazione delle trasformazioni necessarie per raggiungere un determinato obbiettivo ad una certa data: nel nostro caso il taglio dell’80-95% delle emissioni climalteranti al 2050.

Così, ed esempio, si dovranno analizzare i percorsi e gli obiettivi intermedi in grado di portare l’intero patrimonio edilizio su valori “nearly zero energy”. Individuata la traiettoria di riduzione diventano indispensabili le verifiche intermedie, per aggiustare il tiro se è il caso.

La Francia, ad esempio, ha introdotto i “Budget di carbonio” che prevedono la verifica ogni 5 anni dell’adeguatezza delle politiche nei vari comparti.

Ma una “Strategia Climatica 2050” deve necessariamente abbracciare tematiche molto più ampie di quelle energetiche.

Il percorso di decarbonizzazione è infatti strettamente legato alla transizione verso un’economia sempre più circolare. Deve quindi prevedere la valorizzazione della bioeconomia, l’impegno contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, il contenimento dell’espansione antropizzata sui territori.

Vista poi l’importanza dei trasporti, devono essere affrontati i cambiamenti radicali in arrivo, includendo ipotesi chiare sul ruolo della mobilità elettrica senza guidatore.

Ma, la strategia deve necessariamente riguardare anche l’agricoltura, l’allevamento, la gestione forestale, la possibilità di catturare il carbonio nei boschi e nel suolo, includendo una riflessione critica sul nostro modello alimentare.

Sul versante della fiscalità, va considerato lo strumento della carbon tax, spingendo per una sua adozione a livello europeo. Infine, vanno ovviamente considerate le azioni necessarie per adattarsi ai cambiamenti climatici che si accentueranno nei prossimi decenni

Come si vede, l’elaborazione è necessariamente molto trasversale e richiede da un lato il coinvolgimento attivo e non solo formale dei vari stakeholders, dall’altro una cabina di regia delle varie amministrazioni che, in assenza di un Ministero dei cambiamenti climatici, non può che essere allocata presso la Presidenza del Consiglio.

Vista la portata degli ostacoli e delle opportunità connesse con questa sfida, un processo partecipato nella formulazione del Piano è fondamentale affinché tutti i protagonisti della società abbiano consapevolezza dell’ampiezza e radicalità dei cambiamenti necessari e siano protagonisti delle scelte da avviare. 

Questa è peraltro la strada già seguita dalla Germania e dalla Francia nell’elaborazione dei propri piani. Il documento tedesco è stato predisposto attraverso un ampio processo partecipativo che ha visto il coinvolgimento dei Länder, di 60 città e di 125 associazioni del mondo delle imprese, del lavoro e della società civile.

Nell’arco di sei mesi, con il supporto di Istituti di ricerca, sono state predisposte e consegnate al governo 96 proposte. È partito quindi un processo di elaborazione e confronto tra i vari ministeri durato un anno che ha portato al “German Climate Action Plan 2050” che prevede una riduzione delle emissioni a metà secolo dell’80-95% rispetto al 1990, con un obiettivo di riduzione del 55% al 2030 articolato per settori (fig. 1 e 2).

Vista la forte presenza industriale, è previsto anche uno specifico programma di ricerca per approfondire i percorsi che possono portare ad una neutralità delle emissioni climalteranti in questo comparto, includendo la cattura e l’impiego della CO2.

Il Piano francese è meno ambizioso di quello tedesco, ma pur sempre impegnativo, con una riduzione delle emissioni del 40% al 2030 e del 75% al 2050 (Fig. 3). In Francia un intenso processo partecipativo si era già registrato in vista dell’adozione nel luglio 2015 della Legge per la “Transizione energetica per uno sviluppo verde”.

Nel merito dei programmi previsti, risultano molto stringenti gli obiettivi sul parco edilizio, con una riduzione dell’87% delle emissioni rispetto ai livelli attuali. Ma il Piano climatico francese affronta esplicitamente molti temi oltre a quello energetico.  Così, il passaggio ad un’economia circolare ha un ruolo centrale, con un’attenzione alla durata dei prodotti, allo spreco alimentare, alla bioeconomia, alla riduzione del consumo di suolo.

Si evidenzia il rischio degli “stranded assets” nell’analisi degli investimenti. Si propone una carbon tax progressivamente crescente (opzione che però è stata congelata per il 2017). Un largo spazio viene inoltre dedicato al ruolo dell’agricoltura e dei boschi.

Tornando al nostro paese è importante che si evitino false partenze. E chissà che Paolo Gentiloni, ricordando la sua militanza ambientalista, non riesca a dare la giusta priorità alle politiche climatiche … Mai dire mai!

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