Come sta procedendo la decarbonizzazione del mix energetico? Nel 2015 c’è stato un calo record dell’intensità di carbonio – carbon intensity nella dicitura inglese – pari al 2,8% su scala internazionale. Significa che le emissioni complessive di CO2 sono rimaste pressoché stabili, mentre il PIL mondiale è cresciuto del 3,1% circa.
Eppure, questi risultati non bastano secondo PricewaterhouseCoopers (PwC). La società di consulenza con sede a New York ha pubblicato il Low Carbon Economy Index 2016 per monitorare i progressi delle principali economie.
Il grafico sotto riassume il quadro attuale e futuro. Per evitare gli effetti più disastrosi del surriscaldamento globale, evidenzia infatti PwC, la decarbonizzazione dovrebbe avanzare con un ritmo molto più accelerato: -6,5% in media ogni anno da qui al 2100.
Questa proiezione assume un incremento approssimativo del PIL del 3% ogni dodici mesi e tiene conto del rimanente carbon budget, cioè la quantità di CO2 che i paesi potranno ancora immettere nell’atmosfera compatibilmente con un innalzamento medio delle temperature di due gradi centigradi.
Il problema è che alla Cop21 di Parigi le nazioni si sono impegnate a ridurre le emissioni attraverso dei piani volontari denominati INDC (Intended Nationally Determined Contributions) che però faranno diminuire mediamente l’intensità di carbonio del 3% l’anno.
Troppo poco, insomma, da riuscire a mantenere la traiettoria dei due gradi indicata dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il braccio scientifico dell’ONU che studia i cambiamenti climatici. Vediamo più in dettaglio come si stanno comportando alcuni paesi, aiutandoci con lo schema sotto.
Partiamo dal fondo della classifica: la ragione è qui troviamo proprio l’Italia, in compagnia di Argentina, Indonesia, Brasile e Arabia Saudita. L’intensità di carbonio nello Stivale è peggiorata del 4,7% dal 2014 al 2015, anche se poi la situazione è più rosea se guardiamo gli altri indicatori.
L’intensità è comunque diminuita in media dell’1,8% nel periodo 2000-2015 arrivando a 153 tonnellate di CO2/unità di PIL, un valore che riporta il nostro paese tra le migliori cinque nazioni classificate.
In cima alla graduatoria di PwC troviamo Cina e Gran Bretagna con riduzioni della carbon intensity nell’ordine del 6% lo scorso anno in confronto al 2014; in terza posizione ci sono gli Stati Uniti (-4,7%).
Va detto che la Cina, in termini assoluti, resta la seconda nazione più “sporca” della classifica, perché emette in media 475 tonnellate di CO2/unità di PIL – solamente il Sudafrica inquina di più con 583 tonnellate di CO2 – evidenziando ancora una volta quanto sia denso di luci e ombre il suo percorso verso l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili.
La domanda cruciale è se l’utilizzo di carbone abbia raggiunto il picco. Pechino da sola, è bene ricordare, assorbe circa metà della domanda mondiale di questa risorsa fossile. I consumi nel 2015 sono scesi: -1,5% secondo PwC mentre le stime ufficiali cinesi riportano un -3,7% rispetto al 2014.
L’economia del colosso asiatico continua a evolversi con rapidità: alle manifatture tradizionali si stanno affiancando i servizi soprattutto finanziari, che insieme ai vari settori dell’economia verde possono contribuire ad alleggerire un po’ le emissioni cumulative di gas-serra legate all’energia.
Difatti, nel 2015 tali emissioni hanno ristagnato (0,04%) a fronte di una crescita del PIL pari al 6,9% con un chiaro effetto-decoupling, cioè disaccoppiamento tra sviluppo industriale e concentrazione di CO2.
Da notare, infine, i miglioramenti della Gran Bretagna, che abbiamo già sottolineato parlando del boom solare (Gran Bretagna: a maggio la produzione da fotovoltaico supera del 50% quella da carbone). L’economia inglese si sta trasformando da diversi anni, sempre più orientata ai servizi a scapito dei comparti produttivi e manifatturieri.
Il risultato, frutto anche della decisione di chiudere le centrali più inquinanti entro il 2025, è che i consumi di carbone sono crollati ai minimi storici, vedi anche il grafico sotto. Il carbone oggi vale il 12% circa del mix elettrico – due anni fa era tre volte tanto – mentre le rinnovabili si sono portate al 9% della torta complessiva di generazione.
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