Ratificato l’accordo di Parigi sul clima, ma per essere credibili servono i fatti

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L’Italia con il via libero del Senato ratifica l’accordo sui cambiamenti climatici. Ma il nostro paese dovrà fare ben altro per dare il suo contributo alla riduzione delle emissioni dentro un quadro mondiale, energetico e climatico, che non consente più ritardi o azioni di piccolo cabotaggio.

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L’Italia, con il via libero del Senato, ratifica l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici (ddl n. 2568), quello raggiunto nella Cop 21 del dicembre 2015. A Palazzo Madama tutti favorevoli, con un solo astenuto.

La ratifica italiana arriva proprio nell’anno più caldo di sempre a livello mondiale, con la temperatura media globale registrata nei primi nove mesi di ormai 1 °C rispetto alla media del ventesimo secolo.

Sembra oggi una questione tutta nazionale, visto che come dicono molti, “ora il nostro paese potrà presentarsi a testa alta nel prossimo round dei negoziati”, quelli di Marrakech (Cop22) dal 7 al 18 novembre.

Per quanto riguarda invece la  credibilità dell’Italia riguardo alle politiche energetico-ambientali, basterebbe leggere le notizie degli ultimissimi anni per capire che non ci siamo proprio. Oggi il Governo pensa più a far diventare il nostro paese un hub del gas che un polo mondiale dell’innovazione nella green economy.

Ma almeno la questione dell’accordo sul clima è stata certificata. Un accordo tra 195 Paesi che è diventato giuridicamente vincolante con la ratifica di almeno 55 Paesi che rappresentano il 55% delle emissioni globali di gas serra (Stati Uniti e Cina insieme fanno il 38% di emissioni di CO2). Ma che ha tempi di applicazione che slitteranno ai prossimi anni.

Dunque, per quanto ci riguarda stiamo raccontando della ratifica del nostro piccolo paese, che dovrà fare giustamente la sua parte, ma in un quadro mondiale, questo sì rilevante ai fini del clima, che è a tinte chiaroscure.

Di fronte ad impennata poderosa delle energie rinnovabili (vedi ultimo rapporto IEA), la fame di energia soprattutto dei grandi paesi emergenti, come quelli asiatici, fa prevedere piani di sviluppo nazionali con nuove centrali convenzionali, soprattutto a carbone.

Sui trasporti siamo in ritardo e, dunque, messi malissimo, per non parlare dell’attuale modello consumistico imperante, inadatto a un vero processo di decarbonizzazione. E poi su tutto pesa quell’enorme sperequazione sociale ed economica che afflige ancora gran parte dell’umanità.

I dati globali. Le emissioni di anidride carbonica annuali sono raddoppiate in 40 anni e abbiamo, di slancio, superato quota 400 ppm di concentrazione di CO2 in atmosfera, siamo a 404,4 per la precisione. Cosa vuol dire oggi per il clima non è chiarissimo neanche per i più esperti climatologi.

Ma sappiamo che il futuro non sarà roseo se andiamo avanti così. Pensiamo allora ai dati più significativi, quelli che ci dicono che tra 1960 e il 1970 il tasso di crescita annuale della CO2 era in media “solo” di 0,7 ppm per anno. Negli anni successivi, cioè tra il 2000 e il 2010, è arrivato a 2 ppm/anno e ora siamo sui 3 ppm. L’ultimo dato di crescita del 2015 rispetto al 2014 era di 3,05 ppm/anno.  

A questi ritmi in 16 anni potremmo trovarci già ben oltre i 450 ppm, un numero che potrebbe condurci dritti dritti sopra la soglia dei 2 gradi centigradi di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale. Il grado e mezzo in più resta più che mai una chimera.

Ricordiamo ancora che nel periodo che va da gennaio a settembre 2016 sono stati battuti tutti i record di temperatura: a livello globale, per ciascun emisfero, per la superficie terrestre e quella degli oceani.

La domanda allora è: i lunghi tempi di una macchinosa diplomazia e delle cose umane cosa c’entrano con gli eventi climatici indotti dalle nostre attività?

È seccante non essere sempre ottimisti. Tuttavia al di là di qualsiasi accordo, oggi niente affatto vincolante (e forse mai lo sarà), il processo di decarbonizzazione sarà complesso e faticoso, ma necessario. Un percorso che dovrà essere profondo e rapido, con un’accelerazione non pensabile solo dieci anni fa. Semplici cabotaggi non sono più accettabili, le cosiddette “fonti energetiche ponte” sono da additare come pericolose.

Serviranno invece politiche che scoraggino veramente l’uso di combustibili fossili (via tutti i sussidi alle fossili e subito una carbon tax), ingenti investimenti per la ricerca orientata a tecnologie low o zero carbon, accelerazione della diffusione delle rinnovabili e degli interventi di efficienza energetica come due percorsi paralleli e prioritari, tagli drastici alle spese per gli armamenti (strettamente legati alle risorse fossili e minerarie), spinta all’economia circolare, eccetera.

Per una mole simile di lavoro pensiamo di essere pronti, sia a livello decisionale, di interessi economici, di opinione pubblica, soprattutto se pensiamo al fattore chiave, quello del “tempo”?

Ma questa deve essere una sfida epocale che dovrebbe permeare tutte le nostre attività economiche e quotidiane, la politica, l’informazione, la scuola. Come farlo capire, mentre oggi sembriamo, tutti, in tutt’altre (spesso futili), faccende affaccendati?

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