Sulle sponde del Bosforo con il gas un nuovo equilibrio energetico mediorientale

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Sembrano distendersi i rapporti tra Israele e Turchia grazie all’annuncio di un gasdotto che potrebbe unire i due paesi con lo sfruttamento di un grande giacimento offshore. Intanto Ankara si riconcilia anche con Mosca. Il gas diventa la risorsa energetica protagonista di questo duplice disgelo.

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In occasione del recente 23° World Energy Congress ad Istanbul, Yuval Steinitz, ministro israeliano dell’Energia, ha annunciato alla stampa che un gasdotto potrà unire Israele alla Turchia: “quello che abbiamo deciso è di stabilire immediatamente un dialogo tra i nostri due governi … al fine di esaminare la possibilità e la fattibilità di un tale progetto”.

Quella di Steinitz è stata la prima visita ufficiale di un rappresentante del governo israeliano in Turchia da diversi anni a questa parte.

Sebbene Ankara, membro NATO dal 1952, si fosse sempre dimostrato un solido alleato di Israele e degli Stati Uniti all’interno del mondo musulmano, a partire dalla primavera del 2010 le relazioni tra i due Paesi hanno vissuto un lungo periodo di gelo.

Origine delle tensioni fu l’uccisione di dieci attivisti turchi, avvenuta per mano di militari israeliani sei anni fa in occasione dell’abbordaggio della nave Mavi Marmara, imbarcazione che trasportava aiuti agli abitanti della striscia di Gaza.

Tuttavia da tempo Gerusalemme si sta sforzando di riallacciare nella regione un originale legame di cooperazione energetica con Giordania, Egitto, Cipro e Grecia. Senza dubbio Israele è alla ricerca di partner al fine di sviluppare appieno le potenzialità di Leviathan, uno dei più grandi giacimenti offshore del mondo destinato a diventare operativo nel 2019.

In quest’ottica Steinitz ha confermato che “l’opzione turca è molto importante” per Israele, aggiungendo che: “saremmo lieti di vedere aziende turche coinvolte nel settore energetico israeliano”.

Un’opera tanto importante quale lo sfruttamento del Leviathan esige un notevole sforzo tecnico oltre che un’immensa spesa economica. Si immagina infatti di realizzare un gasdotto di oltre 500 km in acque profonde su un fondale roccioso, e costruire una condotta che unisca il super giacimento alla Turchia.

Senza dimenticarsi che questo progetto implica anche un impegnativo sforzo diplomatico in tutta l’area: bisogna infatti superare le resistenze di molti attori, Cipro in primis, che ne osteggiano con forza l’esecuzione.

La realizzazione dello sviluppo del giacimento Leviathan rappresenta per Israele un momento decisivo, la nazione potrebbe cambiare la propria posizione di paese importatore netto di energia, assumendo a tutti gli effetti un ruolo di energy supplier regionale.

Tuttavia è soprattutto dal punto di vista squisitamente geopolitico che il progetto del gasdotto assume le più complesse sfaccettature. Se il gas israeliano giungesse sulle coste turche è plausibile immaginare che da lì proseguirebbe alla volta dell’Europa, svincolando in parte il vecchio continente dal monopolio della Russia.

In definitiva, il successo del progetto si tradurrebbe in una vittoria strategica per gli Stati Uniti, con il loro più stretto alleato in Medio Oriente, in grado di influenzare le dinamiche energetiche europee a danno del vecchio ritrovato avversario, appunto la Russia di Putin.

Da parte sua la Turchia non nasconde di essere estremamente desiderosa di diversificare le proprie forniture energetiche, dal momento che il 35% del consumo di energia nel paese si basa su gas naturale e la produzione nazionale raggiunge a stento i 0,5 miliardi di metri cubi.

La Turchia, infatti, importa dalla Russia quasi il 60% del suo fabbisogno di gas annuale attraverso il corridoio occidentale Blue Stream. L’Iran contribuisce per un ulteriore 15% e il rimanente della richiesta interna è soddisfatto dal gas azero e GNL dall’Algeria.

Ankara è costretta a trovare risorse finanziarie per 14,2 dollari per MBtu per acquistare il gas iraniano, mentre per quello russo la spesa si attesta sui 12 dollari.

Recentemente Putin ed Erdogan pare siano riusciti a superare le tensioni politiche che li separavano fin dal novembre 2015. Il Ministro dell’energia russo, Alexander Novak ha infatti affermato che “la Turchia è per noi un partner importante. Il nostro volume di scambi è salito a 35 miliardi di dollari nel 2014, ma è diminuito di quasi il 40% nei primi otto mesi del 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015 a causa della crisi diplomatica”.

Da quando è salito in carica il Primo Ministro Binali Yildirim, appare chiaro che la politica estera turca ha assunto connotati meno aggressivi rispetto a quanto espresso dal precedente governo di Ahmet Davutoglu.

Ritorna così l’interesse anche per il progetto di dar vita al Turskish Stream, il gasdotto che, passando sul fondo del Mar Nero, dovrebbe collegare la regione russa di Krasnodar e quella turca della Tracia. L’opera aveva subito una battuta d’arresto quando due aerei dell’aereonautica turca abbatterono il 24 novembre 2015 un caccia-bombardiere russo.

Al di là di tutto, la Turchia non può che giovarsi del nuovo ruolo di hub di grande rilevanza per la ricerca della sicurezza energetica euro-mediterranea.

Proprio sul suolo turco già s’intreccia una fitta trama di “rotte energetiche” che collegano l’Oriente e l’Europa: l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum, il gasdotto Trans Anatolian, la Trans Adriatic pipeline (TAP), il Blue Stream e l’Iraq-Turkish-Ceyhan attraverso il quale scorre petrolio iracheno proveniente del Kurdistan dei peshmerga di Barzani.

Ma la partita energetica di Ankara si gioca in Siria. Il martoriato Paese rimane il terreno su cui si sviluppano i principali corridoi energetici mediorientali, alcuni dei quali potrebbero, se resi operativi, giungere sulle coste siriane del mediterraneo, bypassando il collo di bottiglia turco.

Il recente dinamismo bellico turco risponde anche all’obiettivo di voler rafforzare il suo ruolo di strategico snodo energetico e preservarlo da qualsiasi forza destabilizzante.

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