Il solare termodinamico in Sardegna non s’ha da fare?

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Si fa aspra la battaglia contro un grande impianto solare a concentrazione in Sardegna da 55 MWe. Ora c'è l'Ok della commissione tecnica VIA, ma contro ci sono comitati, Regione, Ministero Beni Culturali e perfino Legambiente Sardegna. Le loro motivazioni e le ragioni di ANEST, l'associazione di settore.

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Il solare termodinamico a concentrazione in Sardegna non è gradito o, almeno, non dove si vorrebbe farlo: troppo impattante a livello paesaggistico, notevole occupazione di suolo e, in definitiva, considerato un progetto speculativo. Così dicono gli oppositori.

Contro l’impianto solare termodinamico “Flumini Mannu” da 55 MWe proposto dalla società “Flumini Mannu Limited” nei comuni di Villasor e Decimoputzu, si battono i comitati locali sardi, la Regione (vedi suo parere negativo) e gli enti locali sardi, oltre che il Ministero dei Beni Culturali.

E in questo consesso, con alcuni distinguo, c’è anche Legambiente Sardegna, nonostante Legambiente nazionale e ANEST, l’associazione di settore, nel maggio del 2014 avessero firmato un protocollo di intesa, che, tra i vari punti, prevedeva anche l’individuazione delle aree in cui andrebbero realizzati i nuovi impianti.

Intanto il 18 agosto scorso c’è stato il parere positivo della commissione tecnica VIA proprio su quel progetto, oggetto del contendere, costituito da un campo solare formato da collettori parabolici lineari, di un impianto pilota di desalinizzazione e della connessione elettrica in alta tensione (150 kV) fra la centrale e la cabina primaria Villasor 2.

Ad esempio, tra i più combattivi, il Gruppo d’Intervento Giuridico che scrive all’azienda: “vorreste occupare complessivamente più di 500 ettari di terreno agricolo (269 ettari secondo l’azienda, ndr), grazie anche allo strumento dell’esproprio dove i proprietari non cedessero volontariamente i propri terreni, beneficereste di ingenti incentivi pubblici, utilizzereste notevoli quantitativi idrici, senza che nemmeno vi sia sostituzione di fonti energetiche tradizionali, come chiaramente detto nel Piano energetico regionale adottato”. Quindi dal loro punto di vista escludono ogni aspetto vantaggioso per la comunità.

Questo comitato, nella lettera a firma di Stefano Deliperi, critica la dimensione del progetto (nella foto un rendering dell’area che potrebbe essere occupata – fonte: Regione Sardegna; cliccare per ingrandire) e si rifà per gli aspetti ambientali e socio-economici a quanto detto dalla Regione (vedi sopra parere negativo).

Dal punto di vista di giuridico il comitato si ricollega alla norma regionale che stabilisce che “nelle aree agricole sarde non possono essere ubicati impianti industriali di produzione energetica di tali dimensioni”. Aggiunge, inoltre, che parte delle aree considerate dal progetto sono tutelate con vincolo paesaggistico e nel piano paesaggistico regionale sono individuate solo per utilizzo agro-forestale.

Più o meno dello stesso tenore l’approccio di Legambiente Sardegna che parla di inserimento dell’impianto in “un contesto di rischio di compromissione del paesaggio rurale”. Chiede che venga semmai realizzato, con una taglia minore (15-20 MWe), in zone industriali già esistenti e dotate di infrastrutture.

Non si è fatta attendere la risposta dell’ANEST, per voce del Presidente Gianluigi Angelantoni, che ha inviato ieri una lettera aperta a tutti i ministri competenti e alla presidenza del consiglio.

Angelantoni prova a replicare punto su punto alle critiche fatte in queste ultime settimane dalla stampa locale e dagli stessi comitati, prendendo le difese del progetto e puntando a chiarirne i suoi benefici.

Sull’accusa di consumo di suolo e terre agricole sottratte ai pastori sardi, il presidente ANEST scrive che “nessuno vuole espropriare le terre ai proprietari, ma solo avere un diritto di superficie per 25 anni, dopo di che torneranno nel pieno utilizzo dei concedenti, a prezzi che sembrano essere di grande interesse, almeno a dire di taluni proprietari che hanno accettato”.

Egli afferma poi che i terreni concessi verrebbero occupati dalle infrastrutture della centrale solo in minima parte, pari all’1,5% del totale, mentre gran parte resterebbe disponibile per i proprietari per attività agropastorali.

Nell’ambito del progetto è stata proposta una valorizzazione dell’area, coltivando 200 ettari a foraggio, con una resa dai 30 q/ha attuali a 150 q/ha mediante nuove tecniche di subirrigazione. Altri 50 ettari sarebbe lasciati a erba naturale, ma irrigata, per garantire la certificazione IGT e IGP del pecorino romano prodotto in Sardegna.

In realtà il terreno ora non è utilizzato a scopi agricoli ed è arido per gran parte dell’anno e solo in inverno cresce l’erba. Secondo il presidente dell’associazione le pecore possono tranquillamente pascolare sotto e fra le file di specchi, distanti fra loro 20 metri e alti da terra 3 metri.

Si spiega poi il motivo della di quella localizzazione e non in aree industriali. Queste – argomenta Angelantoni – in Sardegna sono principalmente tre: “Porto Torres, troppo a nord, con insufficiente irraggiamento solare; Ottana con vincoli del terreno che necessitano sbancamenti, un’area esondativa del Tirso e la presenza di una zona migratoria e di nidificazione. Senza contare un irraggiamento scarso di 1760 kWh/mq/anno contro i quasi 2000 della zona scelta. Infine, Macchiareddu dove non esistono aree di tale superficie che non necessitino di bonifica. Bonifiche stimate in 7-8 anni con costi che non si sa da chi saranno sostenuti. Da qui la necessità di usare aree agricole di basso pregio, consentite dalle leggi e dalla particolare tecnologia a sali fusi (nitrati di sodio e potassio usati normalmente come fertilizzanti in agricoltura), non inquinanti e non infiammabili come invece succede con la tecnologia concorrente spagnola che usa olio minerale”.

La Sardegna – dicono gli oppositori all’impianto – ha una produzione elettrica che supera del 30-40% i fabbisogni dell’isola e quindi non necessita di altri impianti. Quello che afferma Angelantoni è invece che l’idea è di realizzare impianti di questo tipo sia proprio per sostituire quella da centrali a combustibili fossili, specialmente quelle a carbone, responsabili di malattie respiratorie e tumorali ben oltre i limiti, come denunciato da molti medici sardi.

“È in pratica il progetto di decarbonizzazione della Sardegna, già proposto al Presidente Pigliaru, per fare della Sardegna la prima regione a sviluppo sostenibile dell’ Europa”, dice il presidente ANEST. In realtà qui il discorso si fa di carattere politico-programmatico e poco c’entra la singola iniziativa di un’azienda, se non si muove dentro un piano energetico regionale chiaro e almeno di medio periodo. Ma si sa, visioni di ampio respiro in Italia non se hanno.

Angelantoni spiega nella sua lettera altri benefici della tecnologia, soprattutto di carattere industriale: una tecnologia tutta italiana. E di quelli sul fronte dell’occupazione anche locale, e delle strategie di investimenti nazionali ed esteri: una società saudita prevede di finanziare Flumini Mannu con 350 milioni di euro, il 50% dei quali saranno spesi in Sardegna con 1500 posti di lavoro per 2-3 anni e oltre 100 posti fissi per almeno 25 anni di vita della centrale.

Tutti aspetti positivi, è vero, che abbiamo spesso analizzato anche su QualEnergia.it, ma che dovrebbero interessare i decisori politici piuttosto che comitati o cittadini, peraltro intenzionati a continuare la loro battaglia contro questo impianto.

Ma, ci chiediamo, sono stati valutati insieme alla popolazione locale e ai comitati pregi e difetti di questo e di altri progetti di impianti a fonti rinnovabili?

Francesco Ferrante, vicepresidente di Kyoto Club e personalità di Legambiente, ha espresso le sue critiche rispetto ai comitati del “No” sardi, al netto di alcuni difetti di progetto e di comunicazione della società proponente.

Ha poi ricordato in un suo articolo che non appena il progetto è stato proposto, media, comitati e politici di quella regione si sono scatenati contro sostenendo che l’area occupata sarebbe sottratta alle attività agricole.

Ma molto spesso ad affermare questo – spiega – sono gli stessi che si sono battuti strenuamente per tenere in vita iniziative decotte e inquinanti come quelle nel Sulcis (miniere di carbone, produzione di alluminio), centrali termoelettriche vecchie e pericolose, o che si battevano contro progetti innovativi come quello della chimica verde a Porto Torres. Oppure – ricorda Ferrante – sono gli stessi che adesso propongono un improbabile quanto assurdo e anacronistico piano per la metanizzazione della Sardegna.

Per cambiare questo atteggiamento preventivamente ostile – conclude Ferrante, “serve urgentemente una politica di sistema che punti finalmente sull’innovazione e abbandoni la difesa dei fossili e che quindi consenta anche di fare corretta informazione, tranquillizzare i cittadini, imporre a tutte le aziende il corretto rapporto con il territorio. Perché anche ‘il bene va fatto bene’, e ciò vale pure per le rinnovabili”.

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